giuliano

martedì 8 maggio 2018

SUL COMMERCIO DELL'ANIMA E DEL CORPO (31)









































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Qui Sobakeviè scosse perfino la testa con rabbia. ‘Blaterano: istruzione, istruzione, ma questa istruzione - pfui! Direi anche un'altra parola, solo che a tavola non sta bene. In casa mia è diverso. In casa mia quando c'è il maiale, via, servi in tavola tutto il maiale, se c'è montone, - porta qua tutto il montone, se un'oca - tutta l'oca! Meglio che mangi solo due piatti, ma mangi a sazietà, finché ne ho voglia’.

Sobakeviè confermò coi fatti questa affermazione: si rovesciò mezzo quarto di montone nel piatto, mangiò tutto, rosicchiò e succhiò fino all'ultimo ossicino.

‘Sì’ pensò Èièikov, ‘questo qui è una buona forchetta’. ‘In casa mia è diverso’ diceva Sobakeviè, pulendosi le mani nel tovagliolo, ‘in casa mia non è come da un Pljuškin qualsiasi: ha ottocento anime e vive e mangia peggio del mio pastore!’. ‘E chi è questo Pljuškin?’ domandò Èièikov. ‘Un imbroglione’ rispose Sobakeviè. ‘Uno spilorcio come è difficile immaginarne. In galera i forzati vivono meglio di lui: ha fatto crepare di fame tutta la sua gente’. ‘Davvero!’ intevenne Èièikov con partecipazione. ‘E lei dice che da lui, sul serio, la gente muore in grande quantità?’. ‘Come le mosche, crepano’. ‘Come le mosche! Possibile? E mi permetta di chiedere se abita lontano da lei?’. ‘A cinque verste’. ‘A cinque verste!’ esclamò Èièikov e sentì perfino un lieve batticuore. ‘Ma uscendo dal suo portone, sarà a destra o a sinistra?’. ‘Le consiglio di ignorarla addirittura la strada che mena da quel cane!’ disse Sobakeviè. ‘È più perdonabile andare in qualche posto indecente, piuttosto che da lui’. ‘No, non l'ho chiesto per qualche fine particolare, ma solo perché m'interessa conoscere luoghi di ogni genere’ rispose allora Èièikov.




Dopo il quarto di montone seguirono delle focacce alla ricotta, ognuna delle quali era molto più grande del piatto, poi un tacchino grosso come un vitello, ripieno di ogni ben di Dio: uova, riso, fegatini e chissà che altro ancora, tutta roba che si bloccava sullo stomaco. Con ciò il pranzo si concluse; ma quando si alzarono da tavola, Èièikov si sentì più pesante di un intero pud. Andarono in salotto, dove si trovava già, in un piattino, della marmellata che non era né di pere, né di prugne, né di frutti di bosco, e che del resto non fu toccata né dall'ospite, né dal padrone di casa. La padrona uscì per metterne anche negli altri piattini. Approfittando della sua assenza, Èièikov si rivolse a Sobakeviè, il quale, sdraiato in poltrona, ansimava un pochettino dopo un sì lauto pranzo ed emetteva dalla bocca dei suoni inarticolati, segnandosela e coprendola ogni momento con la mano. Èièikov gli rivolse queste parole:

‘Vorrei parlarle di un affaruccio’. ‘Ecco dell'altra marmellata’ disse la padrona di casa, tornando con un piattino, ‘rafano cotto nel miele!’. ‘La prenderemo più tardi’ disse Sobakeviè. ‘Adesso va' in camera tua, che io e Pavel Ivanoviè toglieremo il frac e faremo un riposino!’. La padrona aveva già espresso l'intenzione di mandare a prendere piumini e cuscini, ma il padrone disse: ‘Non fa niente, riposeremo in poltrona!’ e lei uscì. Sobakeviè chinò un poco il capo, preparandosi ad ascoltare in cosa consistesse l'affaruccio.




Èièikov cominciò molto alla lontana, toccò in generale tutto l'impero russo e ne lodò molto la vastità, disse che eppure l'antico impero romano era stato così grande, e che gli stranieri giustamente se ne meravigliavano...Sobakeviè ascoltava tutto, a capo chino. E che per le leggi vigenti in questo Stato, la cui gloria era ineguagliata, le anime censite che avevano concluso il corso dell'esistenza venivano comunque valutate alla stessa stregua di quelle vive, fino alla consegna di una nuova lista di revisione, per non oberare in tal modo gli uffici pubblici di una quantità di insignificanti e inutili documenti e non aumentare la complessità del meccanismo statale, già così complesso... (Sobakeviè ascoltava sempre, a capo chino) - e che tuttavia, per quanto giusto fosse questo provvedimento, esso finiva col risultare gravoso per molti proprietari, giacché li obbligava a pagare un tributo come per un soggetto vivo; e che egli, per la stima personale che aveva di lui, era pronto perfino ad assumersi in parte questo onere veramente gravoso. Riguardo all'argomento principale Èièikov si espresse con grande prudenza: non chiamò mai morte le anime, ma soltanto inesistenti. Sobakeviè ascoltava sempre come prima, a capo chino, e nulla di simile a un'espressione appariva sulla sua faccia. Sembrava che in quel corpo l'anima non ci fosse affatto, oppure che fosse non dove si conviene, ma, come in Košèej l'Immortale, in qualche posto oltre le montagne, e ricoperta da una scorza così spessa, che qualunque cosa si fosse mossa nel suo fondo non avrebbe prodotto il minimo turbamento in superficie.




‘E dunque?...’ disse Èièikov, aspettando la risposta non senza apprensione. ‘Le servono delle anime morte?’ domandò Sobakeviè molto semplicemente, senza il minimo stupore, come se si trattasse di grano. ‘Sì’ rispose Èièikov e di nuovo attenuò l'espressione aggiungendo: ‘inesistenti’. ‘Si troveranno, perché no...’ disse Sobakeviè. ‘E se si troveranno, allora a lei, senza dubbio... farà piacere sbarazzarsene?’. ‘D'accordo, sono disposto a venderle’ disse Sobakeviè, che aveva già alquanto alzato la testa e capito che il compratore doveva certo averci il suo tornaconto. ‘Al diavolo’ pensò Èièikov fra sé, ‘questo qui vende prima che io abbia detto 'bah'!" e chiese ad alta voce: ‘E ad esempio quale sarebbe il prezzo? Benché, del resto, sia un articolo tale... che è perfino strano parlare di prezzo...’. ‘Mah, per non chiederle troppo, cento rubli l'una!’ disse Sobakeviè. ‘Cento!’ esclamò Èièikov, restando a bocca aperta e guardandolo dritto negli occhi, non sapendo se aveva sentito male o se la lingua di Sobakeviè, muovendosi male per la sua naturale pesantezza, avesse pronunciato per sbaglio una parola al posto di un'altra. ‘Perché, le sembra caro?’ replicò Sobakeviè e poi aggiunse: ‘E quale sarebbe, allora, il suo prezzo?'. 





‘Il mio prezzo! No, qui dev'esserci un errore oppure non ci capiamo, abbiamo dimenticato di cosa stiamo parlando. Io ritengo da parte mia, mettendomi la mano sul cuore, che ottanta copeche l'anima sia il prezzo massimo!’. ‘Eh, buona questa, ottanta misere copeche!’. ‘Ebbene, a mio giudizio, credo che di più non si possa’. ‘Ma non vendo mica ciabatte’. ‘Però ne convenga anche lei: non sono neanche uomini’. ‘Dunque lei crede che troverà qualcuno così stupido da venderle un'anima censita per ottanta copeche?’. ‘Ma permetta: perché le chiama censite, quando le anime stesse sono morte da un pezzo, e ormai non resta altro che un suono impercettibile ai sensi. Del resto, per non entrare in ulteriori discorsi su questo argomento, sia pure, le darò un rublo e mezzo, ma di più non posso’. ‘Dovrebbe vergognarsi anche solo a nominare una cifra simile! Contratti, dica un prezzo serio!’. ‘Non posso, Michail Semënoviè, mi creda, in coscienza, non posso: quello che non si può fare, non si può fare’ diceva Èièikov, e tuttavia aggiunse un altro mezzo rublo. ‘Ma perché fa tanto l'avaro?’ disse Sobakeviè. ‘Non è mica caro! Un altro imbroglione la ingannerebbe, le venderebbe degli scarti, e non anime; mentre i miei son tante noci piene, di prima qualità: chi non è artigiano, è comunque un contadino robusto. Osservi lei: ecco, per esempio, il carrozziere Micheev! Non ha più fabbricato una sola carrozza che non fosse a molle. E non come quei lavori fatti a Mosca, che durano un'ora soltanto: roba solida, e lui stesso le tappezza e le vernicia!’.





Èièikov aprì la bocca, per osservare che Micheev, però, da un pezzo non era più di questo mondo: ma Sobakeviè, come si suol dire, era entrato nel vivo del discorso, e da lì gli eran venuti la scioltezza e il dono della parola:

‘E Probka Stepan, il carpentiere? Ci scommetto la testa che non lo trova più un mužik così. Che marcantonio! Se avesse prestato servizio nella guardia, Dio sa che cosa gli avrebbero dato, due metri e quindici di statura!’.

Èièikov di nuovo voleva osservare che anche Probka non era più di questo mondo; ma Sobakeviè, evidentemente, aveva preso l'aire: da lui fluivano tali torrenti di parole, che bisognava solo ascoltarlo:

‘Miluškin, fornaciaio! Poteva allestirti un forno in qualsiasi casa. Maksim Teljatnikov, calzolaio: un colpo di lesina ed eccoti gli stivali, e che stivali coi fiocchi, e la vodka non sapeva neanche che cosa fosse. E Eremej Sorokoplëchin! Ma questo mužik da solo varrebbe per tutti: commerciava a Mosca, e solo di tributo in denaro mi portava cinquecento rubli l'anno. Ecco che gente! Non come quella che le venderebbe un Pljuškin qualsiasi’. ‘Ma permetta’ disse finalmente Èièikov, sbalordito da un così copioso profluvio di parole, che pareva non aver mai fine, ‘perché mi enumera tutte le loro qualità, se adesso non servono proprio a nulla, se è tutta gente morta! Con un corpo morto non ci puntelli neanche lo steccato, dice il proverbio’.’Sì, certo, sono morti’ disse Sobakeviè, come riscuotendosi e ricordando che effettivamente erano già morti, ma poi aggiunse: ‘Del resto, c'è anche questo da dire: e che se ne fa della gente che adesso figura come viva? Che razza di uomini sono? Mosche, non uomini’. ‘E comunque esistono, mentre quelli sono una chimera’. ‘Eh no, non una chimera! La racconterò che tipo era Micheev, di uomini così si è perso lo stampo: un colosso, che in questa stanza non ci entrerebbe; no che non è una chimera! E nelle sue spallone aveva una forza, che neanche un cavallo; vorrei sapere dove potrebbe trovarla altrove una chimera del genere!’.





Queste ultime parole le aveva dette ormai rivolgendosi ai ritratti di Bagration e Kolokotronis appesi alla parete, come di solito accade quando nel corso di una conversazione all'improvviso, non si sa perché, uno si rivolge non alla persona con cui sta parlando, ma a un terzo sopraggiunto per caso, magari un perfetto sconosciuto, da cui sa che non riceverà né una risposta, né un parere, né una conferma, ma su cui, tuttavia, fissa lo sguardo come se lo chiamasse a fare da intermediario; e lo sconosciuto, sulle prime alquanto imbarazzato, non sa se rispondergli su una questione di cui non ha sentito nulla, o restarsene lì un po', per rispettare le convenienze, e poi andarsene via.

‘No, più di due rubli non posso darle’ disse Èièikov. ‘E va bene, perché poi non mi accusi di chieder troppo e di non volerle fare un piacere, e va bene: settantacinque rubli l'anima, e in biglietti di banca e, sia chiaro, solo perché è lei!’ ‘Ma sul serio’ pensò fra sé Èièikov, ‘mi prende per un cretino o cosa?’ e poi aggiunse ad alta voce: ‘Davvero mi fa uno strano effetto: sembra che fra noi si stia svolgendo qualche rappresentazione teatrale, qualche commedia, altrimenti non so spiegarmi... A quanto pare lei è una persona piuttosto intelligente, non priva di cultura. Questa merce non è altro che fuffa. Che cosa vale? A chi serve?’. ‘Ma lei la vuol comprare, dunque serve’.

Qui Èièikov si morse il labbro e non trovò nulla da rispondere. Cominciò a parlare di chissà quali circostanze famigliari e domestiche, ma Sobakeviè rispose semplicemente: ‘Non m'importa sapere i fatti suoi; in questioni famigliari io non voglio entrare, questo è affar suo. Lei ha bisogno delle anime, e io gliele vendo, e se non le compra se ne pentirà’. ‘Due rublettini’ disse Èièikov. ‘E dàlli, che mi ripete sempre la stessa solfa, come la gazza del proverbio; una volta fissatosi sul due, non vuole più spostarsi di lì. Su, dica un prezzo serio!’. ‘Ma che il diavolo se lo porti’ pensò Èièikov fra sé, ‘gli aggiungerò mezzo rublo, al cane, e buon pro gli faccia!’. ‘E sia, aggiungerò mezzo rublo’. ‘Be', d'accordo, anch'io le dirò la mia ultima parola: cinquanta rubli! Davvero, ci perdo, più a buon mercato non la comprerà da nessuna parte della gente così in gamba!’….


(N. Gogol’, Le Anime morte)
















(N. Gogol’, Le Anime morte)

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