giuliano

mercoledì 19 febbraio 2020

IL TRIBUNALE DEL VERO INQUISITORE (2)




































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Zi zi zi!

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...Il vostro agente... (3/4)














Il vero inquisitore non picchia. Parla, intimidisce, sorprende.

Il vero inquisitore sa che un buon interrogatorio non consiste nelle torture fisiche ma nelle sevizie psicologiche che seguono le torture fisiche. Sa che col corpo ridotto a un ammasso di piaghe l'interrogato sarà felice di rifugiarsi in qualcuno che lo tormenta con le parole e basta. Sa che dopo tante sofferenze niente come l'annuncio pacato di altre sofferenze piegherà la sua resistenza fisica e morale.

Il vero inquisitore non si mostra mai coi personaggi della commedia che ha nome Interrogatorio: per rivelarsi aspetta che il sipario sia calato sul primo atto. Soltanto allora, come un regista che coordina il lavoro della sua troupe, egli interviene: graduando le domande con pazienza, studiando le risposte con intelligenza, accettando i silenzi con civiltà. Tanto a lui non importano rivelazioni straordinarie o immediate. Gli interessano piuttosto piccole notizie con cui comporre il mosaico che gli consentirà di individuare i punti vulnerabili della sua vittima, provocare in lei un senso di incertezza e di paura, infine l'abbandono totale.




Per questo, quando l'inquisitore si presenta, non basta rifiutargli risposte. Bisogna rifiutargli anche il dialogo, ogni forma di dialogo, e tenere il cervello all'erta. Naturalmente è difficile: le torture fisiche diminuiscono il funzionamento cerebrale. Perché è necessario sforzarsi se si vuole capire dove è giunta l'inchiesta, quel che hanno scoperto o non hanno scoperto. Occhi e orecchi aperti, dunque.

…E memoria, fantasia, perché l'inquisitore non ha fantasia: è un tipo che vede il potere come un fenomeno esterno, un cumulo di mezzi per conservare lo status quo senza affaticarsi nella problematica. Non che sia un cretino o un vanitoso assetato di gloria: spesso non è sollecitato nemmeno da ambizioni personali, si accontenta d'essere uno sconosciuto appena autorevole e cioè di stare nell'anticamera del Potere. Non che egli sia necessariamente malvagio o corrotto: spesso a muoverlo sono un odio sincero per il disordine e un amore sincero dell'Ordine.




Ma il potere totalitario, oppressore, è il suo dio; il modello che egli ha dell'ordine è la simmetria delle croci in un cimitero. In tale simmetria si incasella, lui stesso, senza discutere: non può immaginare nulla di nuovo o di diverso.

Il nuovo e il diverso lo spaventano.

Devoto quanto un prete a sistemi già collaudati, divinizza i regolamenti e vi obbedisce nel modo in cui obbedisce ai banali canoni dell'eleganza: abito blu, camicia bianca, cravatta blu.

Il vero inquisitore è un uomo lugubre. Filosoficamente è il vero fascista, cioè il fascista privo di colore che serve tutti i fascismi, tutti i totalitarismi, tutti i regimi purché servano a mettere gli uomini in fila come croci in un cimitero.




Lo trovi ovunque vi sia un'ideologia, un principio assoluto, una dottrina che proibisca all'individuo d'essere se stesso. Ha uffici in ogni contrada della Terra, capitoli in ogni volume di storia, ieri serviva i tribunali dell'Inquisizione cattolica e del Terzo Reich, oggi serve la caccia alle streghe delle tirannie orientali e occidentali, di destra e di sinistra.

Egli è eterno, onnipresente, immortale. E mai umano. Forse si innamora, all'occorrenza piange e soffre come noi, forse ha un'anima. Ma, se ce l'ha, essa giace dentro una tomba così profonda che per disseppellirla ci vorrebbe un bulldozer. Se non si capisce questo, non gli si può tener testa e resistergli diventa semplicemente un atto di orgoglio personale. Intendiamoci, l'orgoglio personale è legittimo anzi doveroso. Perché chiuso in se stesso è un errore politico: tener testa all'interrogatorio non significa solo dimostrare un eroismo da san Sebastiano o da martiri del Colosseo, significa anche umiliare l'Inquisitore sul piano professionale e mentale, indurlo a dubitare di se e del sistema che egli rappresenta, vendicare tutti coloro che furono schiacciati dalla sua aggraziata ferocia.




E un breve saggio che avresti scritto per il libro molti anni dopo, quando la tua fiaba stava per concludersi, ed è la razionalizzazione del tuo odio per Hazizikis: l'unico aguzzino che non avresti mai perdonato. Un odio cupo, doloroso, testardo. Un odio che era esploso nell'attimo stesso in cui aveva pronunciato il tuo nome, dimostrando di sapere chi eri.

Ti senti meglio, Giuliano?

O devo chiamarti Pietro?

E tu eri rimasto a fissarlo incapace di rispondere sì o no. Avresti dato molto per rispondere sì o no. Ma le parole non uscivano dalla tua bocca, neanche t'avessero tagliato la lingua.




Imputato, alzatevi!

Il presidente ti chiamò. Secondo la prassi, l'imputato doveva parlare prima della Pubblica Accusa. I tre poliziotti allentarono la morsa. Ti alzasti. Guardasti i giudici in faccia, uno a uno. E la tua voce si levò ferma, sonora. Bellissima.

Signori della Corte marziale, sarò breve.

Non vi annoierò.

Non insister nemmeno sull'interrogatorio infame che ho subito: ci che ho già detto su quello mi basta. Prima di esaminare le imputazioni che mi vengono mosse, preferisco insistere su un altro aspetto della vergognosa istruttoria che mi riguarda: il vostro tentativo di sostenere l'accusa con false prove, elementi non veri, testimonianze precostituite o imposte ai testimoni di entrambe le parti. Questa mia apologia infatti non vuole essere un'autodifesa, e non lo sarà. Vuole essere piuttosto una requisitoria, e lo sarà: partendo proprio dal falso documento che mi viene attribuito e che è stato il filo conduttore dell'intero processo. Documento importante, a mio avviso, perché tipico di tutti i processi che si svolgono nei paesi dove la legge viene uccisa insieme alla libertà.




Non siete soli in questa ignominia, no.

Sicuramente, mentre vi parlo, patrioti di altri paesi senza legge e senza libertà vengono giudicati da una Corte marziale asservita a un regime tirannico e condannati sulle basi di false prove, elementi non veri, testimonianze precostituite o imposte ai testimoni, confessioni simili alla confessione che io non ho mai reso e mai firmato: come dimostra il fatto che essa non porta la mia firma bensì quella di due aguzzini che si chiamano Hazizikis e Teofilojannacos.

Aguzzini privi di rispetto per la grammatica, oltretutto. Stanotte ho potuto leggere quei fogli, infine, e sarebbe difficile dire se ho rabbrividito di più per le menzogne o per gli errori sfondoni grammaticali che essi contengono.




Se li avessi visti prima, vi assicuro, anche in stato di coma avrei suggerito qualche correzione. ahimè, di quali analfabeti dispone questo regime! Si direbbe che l'ignoranza vada di pari passo con la crudeltà.

Ebbene, signori della Corte marziale, voi sapete benissimo che servirsi di un documento falso è inaccettabile sia da un lato morale che da un lato legale. E poiché questo processo era stato costruito su tale documento, io avrei avuto il diritto di invalidarlo. Non l'ho invalidato perché non volevo indurvi a credere che avessi paura di affrontare l'accusa.

Chiaro che accetto l'accusa.

Non l'ho mai respinta, io.




Ne durante l'interrogatorio ne dinanzi a voi. E ora ripeto con orgoglio: sì, ho sistemato io gli esplosivi, ho fatto saltare io le due mine. Allo scopo di uccidere colui che chiamate ministro dell’interno. E mi dolgo soltanto di non esser riuscito ad ucciderlo. Da tre mesi quella è la mia pena più grande, da tre mesi mi chiedo con dolore dove ho sbagliato e darei l'anima per tornare indietro, riuscirvi.

Quindi non è l'accusa in se che provoca la mia indignazione: è il fatto che attraverso quei fogli si tenti di infangarmi dichiarando che sarei stato io a coinvolgere gli altri imputati, a fare i nomi che sono stati pronunciati in quest'aula. Ad esempio il nome del ministro cipriota Policarpo Gheorgazis. L'infamia sta qui, ed anche la sua tipicità. Per rafforzarla i miei accusatori hanno perfino detto che la mia fedina penale era sporca, che io ero un teddy boy da ragazzo, un malvivente da adulto, un ladrone e un mercenario. La mia fedina penale è dinanzi a voi, signori della Corte marziale, e potete controllare su quella che io non fui mai un teddy boy, ne un malvivente ne un ladrone ne un mercenario. Fui sempre, e sono, un combattente che lotta per una Grecia migliore, un domani migliore, una società insomma che creda nell'Uomo.




Se io mi trovo qui è perché credo nell'Uomo. E credere nell'Uomo significa credere nella sua libertà. Libertà di pensiero, di parola, di critica, di opposizione: tutto ci che il golpe fascista di Papadopulos ha eliminato un anno fa. Ed eccoci alla prima accusa che mi viene mossa. La prima accusa, anche in ordine di importanza, è tentata sovversione dello Stato: articolo 509 del Codice Penale. E non è paradossale che a muoverla contro di me siano proprio coloro che il 21 aprile 1967 infransero l'articolo 509?

Chi dovrebbe stare dunque in questa gabbia?

Io o loro?

Qualsiasi cittadino con un po' di cervello e un po' di coglioni vi risponderebbe: loro. E aggiungerebbe ci che ora aggiungo: diventando un fuorilegge, rifiutandomi di riconoscere l'autorità del tiranno, io ho rispettato e non offeso l'articolo 509. Ma non m'illudo d'esser compreso da voi su tale punto perché, se il golpe fosse fallito, anche voi sareste in questa gabbia, signori della Corte: non solo i capi della Giunta. Perciò non dico altro, su questo, e passo alla seconda accusa: diserzione.




È vero: ho disertato.

Qualche giorno dopo il golpe ho abbandonato la mia unità e sono andato all'estero con un passaporto falso. Avrei dovuto farlo lo stesso giorno del golpe, non dopo. Ma in quel senso devo essere assolto: il giorno del golpe la situazione era assai tesa con la Turchia e, se fosse scoppiata la guerra, il mio dovere di greco sarebbe stato combattere e non disertare. Proprio perché la guerra non scoppi mi affrettai a compiere l'altro dovere: disertare.

Signori della Corte, servire l'esercito di una dittatura, sì che sarebbe stato un tradimento. Scelsi d'essere disertore, dunque, sono fiero della mia scelta, e detto ciò eccoci all'accusa che a voi preme di più: tentato omicidio del capo di Stato. Incomincerò affermando che contrariamente alle ciance narrate dai miei aguzzini, io non amo la violenza. La odio. Non mi piace nemmeno l'assassinio politico.  Quando esso avviene in un paese dove esiste un libero Parlamento e ai cittadini è data la libertà di esprimersi, di opporsi, di pensare in maniera diversa, io lo condanno con disgusto e con ira.

Ma quando un governo si impone con la violenza e con la violenza impedisce ai cittadini di esprimersi, di opporsi, addirittura di pensare, allora ricorrere alla violenza è una necessità. Anzi un imperativo. Gesù Cristo e Gandhi ve lo spiegherebbero meglio di me…

(Fallaci, un Uomo)











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