giuliano

domenica 10 ottobre 2021

LA SPOSA DELL'ARIA (Seconda Parte)

 



























Precedenti capitoli:


La sposa (Prima parte della Domenica)









“Sì. Tutto a posto,” disse tra sé con un impercettibile movimento delle labbra. Si girò di nuovo verso la folla. E gli spuntò un ghigno furbesco, da prestigiatore che si esibisce nel trucco più riuscito.

 

Chiuse gli occhi e urlò a pieni polmoni: “Mollate gli ormeggi!”.

 

Le mani sudavano, il cuore accelerava.

 

“Mollate gli ormeggi!” scandì nel pomeriggio inondato di sole.

 

Già più di cinquanta volte nella sua lunga vita di aerostiere aveva dato quell’ordine, ma pronunciare quelle parole in tono di comando lo faceva sempre trepidare.

 

“Mollate gli ormeggi!”




 Con la sinistra strinse la mano della sposa e con la destra il coltello di navigazione per liberare la zavorra. Rimase in attesa di sollevarsi sul piazzale stracolmo di teste.

 

E quando un nuovo lampo al magnesio esplose in una luce improvvisa sul bianco della seta, la Stella, infine, prese il volo. 

 

“Corriere della Sera”, 10-11 ottobre 1893 

 

Ci scrivono da Torino, 9 ottobre. Vi ho telegrafato iersera della partenza in pallone dell’aeronauta Charbonnet con la sposina Anna Demichelis.

 

L’aerostato, dal nome Stella – che non si elevò mai oltre i 1800 metri –, passò sopra i comuni di Nichelino e Vinovo quasi sfidando i tetti delle case colla navicella. Quei contadini, entusiasmati, invitavano ad alta voce l’aeronauta a scendere fra loro. Ma il pallone proseguì e in un lungo giro senza meta o direzione fissa, che durò poco più d’un paio d’ore, passò sopra Moncalieri, Carignano, Carmagnola e discese a Piobesi. A Carmagnola si rinnovarono le eccitazioni perché gli sposi scendessero fra i buoni carmagnolesi... Giuseppe Charbonnet ha una cinquantina d’anni, la coraggiosa sposina – una simpatica operaia, figlia della domestica dell’aeronauta – non conta che 18 primavere. L’aerostato Stella è capace di 1700 metri cubi di gas e può innalzare, oltre la zavorra, sei persone.




“Fammi volare.”


“Ti faccio volare.”


“Fammi volare.”


“Sì, ti faccio volare.”




UNA CATASTROFE AEREA

 

“Corriere della Sera”, 13-14 ottobre 1893 

 

I coniugi-aeronauti passarono la prima notte nuziale in un albergo di Piobesi, e alla mattina di lunedì verso le dieci ripartirono col loro pallone, accompagnati da Botto Giuseppe e da un garzone dello Charbonnet, certo Durando Costantino. Da allora si seppe soltanto che nel mattino di lunedì l’aerostato fu avvistato sopra Candiolo, all’altezza di circa duemila metri, dirigentesi verso Pinerolo. Gli aeronauti però si portarono in seguito nelle Valli di Lanzo, e si attribuiva all’ardito Charbonnet il proposito temerario di voler varcare le Alpi in pallone e discendere in Francia.




 Davanti a me, nel sole a picco che accorcia le ombre, appare la costruzione moderna a tre piani del nuovo rifugio: un cubo grigio con il tetto spiovente in lamiera. Gli scuri in ferro delle finestre dipinti vezzosamente di rosso, le scale antincendio, i pannelli solari e una parabola satellitare rompono la simmetria della massa pietrosa.

 

L’uomo è alto, sulla quarantina, con la barba nera e un ciuffo che gli spunta dal berretto di lana calato sulla fronte.

 

“Lei è il gestore?” domando.

 

“Dimmi!”

 

“Volevo chiederle un caffè e del cioccolato.”

 

“Vieni.”

 

E mi fa segno di seguirlo.




 Sulle prime, arrivando dalla luce violenta nella penombra dell’interno, vedo a stento. Sento lo sbattere del filtro sul legno del cassetto per far scendere il fondo e poi il vapore della macchina che fischia. Gli occhi si adattano alla luce fioca, adesso vedo anche il liquido beige scendere nella tazzina.

 

“Posso farle qualche domanda?”

 

“Tieni, lì c’è lo zucchero. Come dici?”

 

“Se posso chiederti delle cose...”

 

“Dimmi.”




Il rifugista racconta nel suo spiccato accento piemontese. Si chiama Roberto Chiosso e da un paio di mesi è il nuovo gestore dello storico rifugio Gastaldi. La scorsa primavera, appena assunta la responsabilità della gestione datagli dalla sezione di Torino del Club Alpino Italiano, si è fatto depositare quassù da un elicottero insieme al materiale necessario per l’apertura stagionale: viveri, carburante, attrezzi per la manutenzione di fine inverno. Quel mattino di maggio la neve avvolgeva ogni cosa, erano anni che non se ne accumulava tanta. Con l’elicotterista hanno dovuto scavare una trincea per raggiungere la porta d’ingresso; e dopo qualche ora, dopo aver scaricato e sistemato tutto, l’elicottero ha acceso il motore ed è ripartito. Il nuovo rifugista l’ha visto sollevarsi in una nuvola di cristalli di neve e poi allontanarsi nel cielo terso, fino a sparire nel nulla.




Roberto Chiosso era rimasto solo. Intorno, dominava il silenzio. Nessuno in giro per chilometri e chilometri di montagne innevate. Poi, già la stessa sera, ha cominciato a nevicare. Una nevicata eccezionale, che non smetteva più: intere giornate chiuso nel rifugio sommerso sotto la coltre nevosa. Alla fine è ritornato il sereno. Ma la neve era scesa in quantità spaventosa. Non si riusciva più a muoversi, né a calare a valle per via del pericolo delle valanghe. Il rifugista ha inaugurato così la sua gestione: rimanendo isolato per quattro settimane, razionando il cibo per resistere fino all’assestamento della neve.

 

Ora è estate, e tra qualche giorno arriverà sua figlia dodicenne a studiare. Un buon posto dove ritirarsi con i libri.

 

“Questa parte delle Alpi Graie è sempre meno frequentata.”

 

“Pochi escursionisti, eh...” dico portandomi alle labbra la tazzina di caffè.




 “Sto aperto da giugno a metà settembre, e credimi, ormai di qui passa veramente poca gente. Eppure, questa è una zona gloriosa per l’alpinismo piemontese. L’epoca d’oro è stata a cavallo tra Otto e Novecento, quando molti valligiani facevano le guide. Non come adesso, che le valli sono spopolate. Se vai giù a Balme, al museo, ti renderai conto di cos’era qui una volta. C’era molta, molta più vita. Poi se vuoi ti faccio vedere il museo allestito nel vecchio rifugio. È piccolo, ma interessante.”

 

Poso la tazzina. E annuisco contento.

 

Il museo del rifugio è veramente poca cosa: qualche foto, un paio di cimeli, vecchie piccozze, ramponi arrugginiti. Ma riesce lo stesso a far capire come un tempo queste montagne fossero frequentate, assiduamente e con slancio romantico, dall’alta borghesia sabauda. I signorotti piemontesi si cimentavano, seguendo la moda importata dagli inglesi, nel difficile gioco delle scalate sulle pareti qui intorno. L’ingegner Antonio Tonini salì la Bessanese, chiamata anche per la sua forma ardita – e senza grande originalità – il Cervino delle Valli di Lanzo. (Ma quanti Cervini ci sono al mondo?) Della stessa cerchia di alpinisti facevano parte Luigi Vaccarone, il pittore Alessandro Balduino, lo scrittore Guido Rey e Umberto Murari Bra, spesso legati alla corda della guida locale Antonio Castagneri, detto Toni dei Tuni, che troverà la morte durante una scalata sul Monte Bianco.




“Oggi questa zona attrae ben pochi arrampicatori: la roccia è friabile, malsicura. Ma per l’escursionismo è perfetta, i posti li vedi anche tu, sono bellissimi,” mi dice Roberto Chiosso uscendo dal rifugio, “solo che gli escursionisti preferiscono il vicino Gran Paradiso e mettersi in coda lungo i sentieri. Valli a capire! Cosa c’è di meno qui che al Gran Paradiso? Meno gente, ecco cosa c’è di meno. E proprio per questo, dico io, è più bello, più selvaggio! O no?”

 

Mentre chiude la porta di legno, gli chiedo a bruciapelo: “Mi sapresti indicare dov’è caduta la Stella?”.

 

Lui si volta di scatto e mi guarda sorpreso.

 

“E cosa ne sai tu della Stella?”


 

“Niente, mi chiedevo dove potesse aver picchiato sulla montagna. Mi sembra che sia dalle parti dello Spigolo Murari, che sale, mi hanno detto, sul lato nord-est della Bessanese.”

 

“Ah!”

 

Lo seguo sul sentiero che in un attimo porta a un promontorio naturale, proprio sopra il ghiacciaio.

 

Tira un vento teso e gelido. E la luce è accecante. Grandioso, penso.

 

Sotto i nostri piedi, oltre la placca rocciosa maculata di licheni, la spianata di terriccio digrada verso la morena, dove si accumulano i massi spigolosi precipitati nel corso del tempo dalla parete soprastante. Poco più su parte il ghiacciaio azzurrino e crepacciato, e ancora oltre, sopra una fascia basale di rocce, giganteggia la parete nord-est della Bessanese, solcata da canali e diedri che corrono per tutta la sua altezza. Sembra di sentire l’odore del ghiacciaio. Ci sarà ancora lassù, mi chiedo, qualche scampolo di seta che aspetta lentamente di decomporsi?




“Quello che tu adesso vedi pietraia era tutto ghiacciaio alla fine dell’Ottocento. Devi sforzarti e immaginare.”

 

“Ci provo.”

 

“Lo Spigolo Murari è lassù, proprio tra l’ombra e la luce del sole. Lo vedi?”

 

“Quello lì a sinistra? È quello che fu scalato per la prima volta da Umberto Murari Bra? È una salita famosa, ho letto...”

 

“No, è quello a destra, proprio contro il cielo. È la più famosa e certamente la più bella via alpinistica della zona. Ma non la più difficile. Chi l’ha detto poi, che bello è uguale a difficile? Però è pericolosa, quello sì. Per via della roccia instabile. Non ci si può calare in corda doppia perché la parete è troppo frastagliata e non molto ripida, bisogna farsi tutto il giro dalla cima. E il ritorno, te lo dico, è veramente eterno.”

 

“Dunque è difficile...”




 “Be’, l’arrampicata è sempre aerea, presenta un paio di passaggi di quarto grado. Ma è tutta da proteggere, è quello il casino. Sono presenti solo le soste, le hanno attrezzate da poco con chiodi cementati a intervalli di cinquanta metri. E, ripeto, non ci si può calare in doppia. Divertente, vai se ti capita,” conclude Roberto alzando le spalle.

 

“Forse lassù è più difficile scendere che salire.”

 

“Non ‘forse’, sicuro: te l’ho detto, dallo Spigolo Murari non si può scendere in corda doppia.”

 

“E come avranno fatto quelli del pallone? Continuo a chiedermelo.”

 

“Saranno scesi col pallone strisciando sulle rocce. In che altro modo, se no? E poi vai a sapere come sono riusciti a raggiungere il ghiacciaio, a superarlo, a passare di qui senza accorgersi del rifugio. Avrebbero potuto dormire comodi. E non si sono accorti...”

 

“Eh già, vai a sapere...”

 

“Ma dimmi una cosa: perché ti interessa tanto questa storia?”…

 

(M.A. Ferrari, La sposa dell’aria)










 

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