giuliano

lunedì 19 ottobre 2015

CARLO GINZBURG (4)











































Precedenti capitoli:

Carlo Ginzburg (3/1)













Narra il suono di un tamburo,
corre per un patimento,
suo eterno tormento. (6)

Scandisce il tempo di un Dio,
nato dalla strofa di un boato,
precipitato da una forma perfetta,
ad un caos di prima materia.
E’ la danza dell’Universo,
inciampa poi s’alza,
vuol scoprire un mondo
privo del Primo Pensiero.
Spirito che abbraccia
la sua strana illusione,
parola che crea,
e tempo che prega.
Materia che nasce e muore,
in questa strana visione.
Scordando il suo principio,
prima e increata sostanza,
racchiusa in un punto
della mia memoria.
Quando l’intero mondo raccolto,
racconta ora…,
…la sua eterna storia. (7)
 
L’uomo barbuto,
dopo aver bevuto l’intruglio,
sente anche lui il rumore
di un lontano pianeta perduto.
Vede luci e colori,
passi di danza
di antichi rumori.
A ritroso precipitano
per svelare gli accordi
di un nuovo strumento.
Narrano la scienza mai morta
di una stella che nasce,
e un’altra che tramonta.
Nell’infinito ciclo di una memoria
….non ancora colta. (8) 

Ode i colori e sente il rumore,
forse una perfetta equazione.
Al suono di un tamburo
svela l’intuito…,
di ciò che non muore. 
Ma rimane perfetto,
invisibile alla vista
di una mano che coglie.
Cieca alla spina,
muta al ricordo,
chi vede la rosa
e il suo sogno
….mai morto. (9)

Sconosciuto agli occhi
chi ha reciso la spina,
per una corona
come solo ornamento,
di una stella che muore
inchiodata ad un legno.
Uno sciame di fiori
nel sogno mai morto,
come tante primavere 
in un cielo che accende,
tutte le sue stelle.
Confusi dall’odore
di un inverno
prima dell’amore,
che pian piano diventa dolore.
Dove la simmetria
non ancora svelata,
cede il passo e la danza
alla vita appena nata.
Dove l’ultimo bagliore
di una stella che muore,
sveglia il Nulla
di una donna che urla
la sua paura.
Arsa al rogo
di un blasfemo versetto,
con solo la pretesa di narrare,
come quel Nulla
ha un giorno parlato,
e spiegato quel Tutto
non ancora svelato. (10) 

Sveglia la voce dello sciamano,
dal rumore sordo del tempo
è divenuto oscuro ornamento,
di una sol bestia
che danza nel vento.
Passo della vita che racconta
il ricordo e il dolore
di una stella che muore,
vomitando sussurro e grido,
zero e infinito,  
di un mondo non del tutto
perfetto,
al triste versetto.
Al sogno dell’antico sciamano
(disegno appena accennato),
ha preferito un sogno mai nato,
nella coscienza
di una strana visione,
perché è solo una rosa
che muore,
inchiodata alla sua croce.
Non potendo così più indicare
la vera direzione,
sogno del suo uomo
e la sua strana Terra,
sfera perfetta
non ancora detta. (11)


Bruciati di fretta su una piazza
scolpita nella nostra memoria.
I due muoiono arsi dall’ingiuria
dello stesso fuoco, 
come animali braccati
e poi divorati,
dal popolo in nome
del loro Dio,
e il suo strano sacrificio.   
E per la fame nemica del sapere,
ventre della falsa memoria…,
…dell’intera storia.   
I due muoiono come bestie,
lupi che corrono assieme,
all’ombra di un fuoco mai spento,
ora brucia e soffia cenere al vento.
Cena segreta,
dottrina non detta,
scritta nella parola
da chi conosce fame e dolore…,
nel loro Tempo senza amore. (59) 

Si raccontò poi,
molti anni dopo,
che i due furon rivisti
in cima alla pietra…,
d’una antica collina.
Due lupi animano la piazza,
ululando la loro pena
ad una città interdetta.
Illuminano così le notti
di troppi bigotti, 
perché nel parlare di queste
povere bestie,
confondono ragione e fede.
Convinti che la coscienza
mal riposta del loro peccato,
riposa ora in un nuovo latrato.
Incubi e sudori tutte le sere,
mentre i due lupi vegliano
la strana fede,
nel perimetro di un recinto
di bestie sommesse,
che al belare della preghiera
han fatto la loro promessa…,
di una sicura difesa.
Contro i due diavoli e le loro notti,
contro le tenebre ed oscure promesse. 
Strane passioni in strane parole,
che vagano ora alla luce del sole. (60)

Il popolo è pecora nell’ora
dove l’anima cammina
e non più implora.
L’uomo è lupo
con la donna sua sposa,
nella corsa di una lupa,
donna mai morta.
Gli occhi loro fin troppo
belli,
e felici di nuovo.
La lingua fra i denti
non implora perdono.
Parlare della loro storia
e cantarne in silenzio..,
il fuoco mai spento.
Perché un altro Dio
li ha restituiti al vento,
di un’antica eresia…,
…..senza tempo. (61) 

Il gregge si unisce…,
così come è suo dovere,
e il buon pastore lo conta
come pecunia
del ricco padrone,
…così come si deve! 
Nella notte profonda
che ora diviene
solo tormento,
il pastore comanda
al fedele cane..,
di navigare nello scuro mare.
La sua Terra deve liberare
da chi la vuol azzannare. 
Per un lupo che non è più bestia,
ma solo un incubo
che attende vendetta. (62)

Sarà che son io che li ho creati
e poi anche allevati.
I loro racconti mai morti
son diventate rocce nascoste
di tante anime sospese,
sacrificate nel folle momento
di un terremoto figlio
del loro tempo.
Sarà che son io,
che li ho visti parlare,
l’ululato muto è spirato,
soffocato nell’urlo violento
di un intero popolo
che grida contento.
Sarà che son io,
che ho visto quel vile,
sommesso chiuso nell’ovile,
e nel perimetro ristretto
vicino ad un tempio.
Di guardia solo un pastore,
cane fedele a tutte le preghiere,
…a contare i miseri agnelli,
rubati e pascolati
come tanti denari.
Pecunia di Dio
e di un cane pastore,   
ora non morde ma conta le ore
mentre veglia la croce. (63)

Mentre i due lupi
mi han ricambiato
la cortesia,
parola appena intuita
dalla pecunia assopita.
Ora restituita alla memoria.
Giammai il perdono
di un peccato mai celebrato,
ma solo la rima
che ridona parola,
ad una vita senza onore e gloria.
Sacrificata sulla piazza
come bestia braccata,
senza nemmeno un’ultima speranza
per la pecora
….che ora avanza.
Muta pecunia che conta l’ora,
sogno di un Dio
…..e la sua parola. (64)

Sarà che son io quel Dio
taciuto,
nell’ultimo disperato urlo.
Secondo al Primo, 
perché nella sua gloria,
è convinto del dono della parola.
Sarà che son io la parola negata,
né scritta né dipinta
sulla volta o il pavimento,
di un nuovo convento.
Dove al libro della vita
rubarono perfino la rima,
per un ingorda bugia
che è solo idolatria. (65)

Sarà che son io quel Dio
che ridona l’amore,
ad un uomo che piange
del suo stesso dolore.
La donna così bella
è mutilata
della sua bellezza,
riflessa negli occhi
pieni di terrore.
I due non osano parola
nell’ultima ora,
la grande paura
ha mutilato
perfino l’ingegno.
L’istinto ho mutato in folle
corsa,
in compagnia del vento,
ridona la forza
ad un sogno mai spento.
Il ghiaccio modella i bei
lineamenti,
la neve come allora..,
li fa di nuovo contenti.
L’acqua li disseta,
e la luna gli insegna una nuova
preghiera.
La foresta danza con loro
l’antica poesia,
….una terra promessa…,
per scoprire la vita. (66)

Io ho restituito loro
il sorriso,
e l’ultima smorfia di dolore
è divenuta una rima,
per ogni notte del buon pastore.
Così da contarne le ore…,
per ogni rima
….del loro eterno amore. (67)

Ora il loro pensiero
diviene linguaggio perfetto,
mentre azzanna il petto.
Ventre bianco ricolmo d’interiora,
un’anima che prega
per la sua ora.
Candido e bianco più della neve,
dal collo dove ora sgorga
il vino del loro piacere.
Sangue reale….,
anche se bevuto,
….non fa poi così male. (68)

La pecunia rantola nell’incubo
che avanza,
scalcia nel buio della sua sostanza,
rubata ad una coppia che ora
non più dorme…,
l’eterno sonno della morte.
Forse perché nel freddo di un mondo
che non muore.
Il loro sogno invece,
crepa in lenta e tranquilla agonia,
nel bianco candore
di un belato lungo la via. (69)

I due lupi turbarono le notti
ed i giorni migliori
di troppi pastori,
sacrificano con quelli
i loro cani pastori.
Li trovano morti e sanguinanti,
con gli schioppi stretti fra le mani.
Li trovano legati alla catena,
con la bava che scende dalla bocca.
Gli occhi come chi prega,
l’urlo sommesso
della stessa preghiera.
Il collo squarciato l’orecchio inciso,
da chi ha sofferto uguale tormento,
…ma ora corre libero
nel vento! (70)

Son io che gli ho restituito
memoria,
nell’ultimo desiderio
prima che l’anima fugga
di nuovo nel vento.
Quel rantolo di dolore
ho trasformato in terrore,
chi pensa di aver ucciso
l’amore. 
Il grido ho trasformato
in eterno sorriso.
Non è insano tormento,
ma ululato che spezza il vento.
Mi guardano fieri lungo la via,
mi seguono muti fino alla piazza,
mi indicano il posto
e mi insegnano le parole..,
del loro segreto amore.
Io non faccio null’altro
che ricambiare gentil cortesia,
e cantare il dolore oramai muto
di un uomo e una donna,
ora mi fanno eterna compagnia.
Nel segreto di una verità…
che mai sarà dottrina,
perché racchiusa nel silenzio
di ogni rima e strofa
nascosta.
Eterna poesia dell’anima mia! (71)

Son io quell’uomo che cammina
senza sera e mattina,
vago pure di notte a vegliar
le porte.
Ogni uscio della falsa dottrina,
mi porta pure a sfidare
la mala sorte,
di ogni ora del giorno e della notte.
Sull’uscio dell’ovile
per scolpire di rosso
il loro dormire.
Son io quell’uomo senza ora,
vago contento…,
senza forma né tempo,
lontano dal perimetro
di una falsa geografia.
Li vuole tutti nel circolo
d’una pia illusione,
inganno imperfetto nominato tempo.
A spasso con l’ora che segna
il nostro destino e l’ultima parola,
…bruciata senza memoria. (72)

Contar i minuti d’un campanile
del suo troppo rumore,
per radunar la folla nel rito,
senza la presenza
di alcun Dio.
Per radunar la gente,
solo per veder morir
un innocente.
La campana annuncia la venuta,
lento sacrificio mai spento,
solo un uomo che urla
nel vento.
Giammai raccolsi pentimento,
in quel grido di rabbia
lasciato al vento.
Giammai vidi peccato
nel suo amore braccato,
ora corre senza lamento…,
libero da ogni tormento. (73)

Son io il vento che lo vide morire,
son io l’acqua che placa la sua sete,
son io il fuoco che riaccende
il suo vago ricordo,
son io la terra che culla il sogno
raccolto. (74) 

La donna gli fa compagnia,
china ritorta
come una povera arpia.
Nell’ora stabilita
il boia canta la sua litania,
un Dio che non perdona
per questa via. (75)

Occhio del suo tempo….,
mentre noi vaghiamo
senza neppure una fossa.
Solo la luce di un altro Dio
che non concede fissa dimora.
Ci fa strisciare, correre poi volare….
anche di notte….,
per punire la loro triste sorte.
Bestie contorte
chiuse nella notte
a contarne le ore,
al grido di un lupo
che non chiede mai aiuto. (76)

(C.  Ginzburg, i benandanti;  Giuliano Lazzari, Primo Dialogo con la creazione, Fr. 4/11 & 59/76;   da Frammenti in Rima) 





























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