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Carlo Ginzburg (3/1)
Narra il
suono di un tamburo,
corre per
un patimento,
suo
eterno tormento. (6)
Scandisce
il tempo di un Dio,
nato
dalla strofa di un boato,
precipitato
da una forma perfetta,
ad un
caos di prima materia.
E’ la
danza dell’Universo,
inciampa
poi s’alza,
vuol
scoprire un mondo
privo del
Primo Pensiero.
Spirito
che abbraccia
la sua
strana illusione,
parola
che crea,
e tempo
che prega.
Materia
che nasce e muore,
in questa
strana visione.
Scordando
il suo principio,
prima e
increata sostanza,
racchiusa
in un punto
della mia
memoria.
Quando
l’intero mondo raccolto,
racconta
ora…,
…la sua
eterna storia. (7)
L’uomo
barbuto,
dopo aver
bevuto l’intruglio,
sente
anche lui il rumore
di un
lontano pianeta perduto.
Vede luci
e colori,
passi di
danza
di
antichi rumori.
A ritroso
precipitano
per
svelare gli accordi
di un
nuovo strumento.
Narrano
la scienza mai morta
di una
stella che nasce,
e
un’altra che tramonta.
Nell’infinito
ciclo di una memoria
….non
ancora colta. (8)
Ode i
colori e sente il rumore,
forse una
perfetta equazione.
Al suono
di un tamburo
svela
l’intuito…,
di ciò
che non muore.
Ma rimane
perfetto,
invisibile
alla vista
di una
mano che coglie.
Cieca
alla spina,
muta al
ricordo,
chi vede
la rosa
e il suo
sogno
….mai
morto. (9)
Sconosciuto
agli occhi
chi ha
reciso la spina,
per una
corona
come solo
ornamento,
di una
stella che muore
inchiodata
ad un legno.
Uno
sciame di fiori
nel sogno
mai morto,
come
tante primavere
in un
cielo che accende,
tutte le
sue stelle.
Confusi
dall’odore
di un
inverno
prima
dell’amore,
che pian
piano diventa dolore.
Dove la
simmetria
non
ancora svelata,
cede il
passo e la danza
alla vita
appena nata.
Dove
l’ultimo bagliore
di una
stella che muore,
sveglia
il Nulla
di una
donna che urla
la sua
paura.
Arsa al
rogo
di un
blasfemo versetto,
con solo
la pretesa di narrare,
come quel
Nulla
ha un
giorno parlato,
e
spiegato quel Tutto
non
ancora svelato. (10)
Sveglia
la voce dello sciamano,
dal
rumore sordo del tempo
è
divenuto oscuro ornamento,
di una
sol bestia
che danza
nel vento.
Passo
della vita che racconta
il
ricordo e il dolore
di una
stella che muore,
vomitando
sussurro e grido,
zero e
infinito,
di un
mondo non del tutto
perfetto,
al triste
versetto.
Al sogno
dell’antico sciamano
(disegno
appena accennato),
ha
preferito un sogno mai nato,
nella
coscienza
di una
strana visione,
perché è
solo una rosa
che
muore,
inchiodata
alla sua croce.
Non
potendo così più indicare
la vera
direzione,
sogno del
suo uomo
e la sua
strana Terra,
sfera
perfetta
non
ancora detta. (11)
Bruciati
di fretta su una piazza
scolpita
nella nostra memoria.
I due
muoiono arsi dall’ingiuria
dello
stesso fuoco,
come
animali braccati
e poi
divorati,
dal
popolo in nome
del loro
Dio,
e il suo
strano sacrificio.
E per la
fame nemica del sapere,
ventre
della falsa memoria…,
…dell’intera
storia.
I due
muoiono come bestie,
lupi che corrono
assieme,
all’ombra
di un fuoco mai spento,
ora
brucia e soffia cenere al vento.
Cena segreta,
dottrina
non detta,
scritta
nella parola
da chi
conosce fame e dolore…,
nel loro
Tempo senza amore. (59)
Si
raccontò poi,
molti
anni dopo,
che i due
furon rivisti
in cima
alla pietra…,
d’una
antica collina.
Due lupi
animano la piazza,
ululando
la loro pena
ad una
città interdetta.
Illuminano
così le notti
di troppi
bigotti,
perché
nel parlare di queste
povere
bestie,
confondono
ragione e fede.
Convinti
che la coscienza
mal
riposta del loro peccato,
riposa
ora in un nuovo latrato.
Incubi e
sudori tutte le sere,
mentre i
due lupi vegliano
la strana
fede,
nel
perimetro di un recinto
di bestie
sommesse,
che al
belare della preghiera
han fatto
la loro promessa…,
di una
sicura difesa.
Contro i
due diavoli e le loro notti,
contro le
tenebre ed oscure promesse.
Strane
passioni in strane parole,
che
vagano ora alla luce del sole. (60)
Il popolo
è pecora nell’ora
dove
l’anima cammina
e non più
implora.
L’uomo è
lupo
con la
donna sua sposa,
nella
corsa di una lupa,
donna mai
morta.
Gli occhi
loro fin troppo
belli,
e felici
di nuovo.
La lingua
fra i denti
non
implora perdono.
Parlare
della loro storia
e
cantarne in silenzio..,
il fuoco
mai spento.
Perché un
altro Dio
li ha
restituiti al vento,
di
un’antica eresia…,
…..senza
tempo. (61)
Il gregge
si unisce…,
così come
è suo dovere,
e il buon
pastore lo conta
come
pecunia
del ricco
padrone,
…così
come si deve!
Nella
notte profonda
che ora
diviene
solo
tormento,
il
pastore comanda
al fedele
cane..,
di
navigare nello scuro mare.
La sua
Terra deve liberare
da chi la
vuol azzannare.
Per un
lupo che non è più bestia,
ma solo
un incubo
che
attende vendetta. (62)
Sarà che
son io che li ho creati
e poi
anche allevati.
I loro
racconti mai morti
son
diventate rocce nascoste
di tante
anime sospese,
sacrificate
nel folle momento
di un
terremoto figlio
del loro
tempo.
Sarà che
son io,
che li ho
visti parlare,
l’ululato
muto è spirato,
soffocato
nell’urlo violento
di un
intero popolo
che grida
contento.
Sarà che
son io,
che ho
visto quel vile,
sommesso
chiuso nell’ovile,
e nel
perimetro ristretto
vicino ad
un tempio.
Di
guardia solo un pastore,
cane fedele
a tutte le preghiere,
…a
contare i miseri agnelli,
rubati e
pascolati
come
tanti denari.
Pecunia
di Dio
e di un
cane pastore,
ora non
morde ma conta le ore
mentre
veglia la croce. (63)
Mentre i
due lupi
mi han
ricambiato
la
cortesia,
parola
appena intuita
dalla
pecunia assopita.
Ora
restituita alla memoria.
Giammai
il perdono
di un
peccato mai celebrato,
ma solo
la rima
che
ridona parola,
ad una
vita senza onore e gloria.
Sacrificata
sulla piazza
come
bestia braccata,
senza
nemmeno un’ultima speranza
per la
pecora
….che ora
avanza.
Muta
pecunia che conta l’ora,
sogno di
un Dio
…..e la
sua parola. (64)
Sarà che
son io quel Dio
taciuto,
nell’ultimo
disperato urlo.
Secondo
al Primo,
perché
nella sua gloria,
è
convinto del dono della parola.
Sarà che
son io la parola negata,
né
scritta né dipinta
sulla
volta o il pavimento,
di un
nuovo convento.
Dove al
libro della vita
rubarono
perfino la rima,
per un
ingorda bugia
che è
solo idolatria. (65)
Sarà che
son io quel Dio
che
ridona l’amore,
ad un
uomo che piange
del suo
stesso dolore.
La donna
così bella
è
mutilata
della sua
bellezza,
riflessa
negli occhi
pieni di
terrore.
I due non
osano parola
nell’ultima
ora,
la grande
paura
ha
mutilato
perfino
l’ingegno.
L’istinto
ho mutato in folle
corsa,
in
compagnia del vento,
ridona la
forza
ad un
sogno mai spento.
Il
ghiaccio modella i bei
lineamenti,
la neve
come allora..,
li fa di
nuovo contenti.
L’acqua
li disseta,
e la luna
gli insegna una nuova
preghiera.
La
foresta danza con loro
l’antica
poesia,
….una
terra promessa…,
per
scoprire la vita. (66)
Io ho
restituito loro
il
sorriso,
e
l’ultima smorfia di dolore
è
divenuta una rima,
per ogni
notte del buon pastore.
Così da
contarne le ore…,
per ogni
rima
….del
loro eterno amore. (67)
Ora il
loro pensiero
diviene
linguaggio perfetto,
mentre
azzanna il petto.
Ventre
bianco ricolmo d’interiora,
un’anima
che prega
per la
sua ora.
Candido e
bianco più della neve,
dal collo
dove ora sgorga
il vino
del loro piacere.
Sangue
reale….,
anche se
bevuto,
….non fa
poi così male. (68)
La
pecunia rantola nell’incubo
che
avanza,
scalcia
nel buio della sua sostanza,
rubata ad
una coppia che ora
non più
dorme…,
l’eterno
sonno della morte.
Forse perché
nel freddo di un mondo
che non
muore.
Il loro
sogno invece,
crepa in
lenta e tranquilla agonia,
nel
bianco candore
di un
belato lungo la via. (69)
I due
lupi turbarono le notti
ed i
giorni migliori
di troppi
pastori,
sacrificano
con quelli
i loro
cani pastori.
Li
trovano morti e sanguinanti,
con gli
schioppi stretti fra le mani.
Li
trovano legati alla catena,
con la
bava che scende dalla bocca.
Gli occhi
come chi prega,
l’urlo
sommesso
della
stessa preghiera.
Il collo
squarciato l’orecchio inciso,
da chi ha
sofferto uguale tormento,
…ma ora
corre libero
nel
vento! (70)
Son io
che gli ho restituito
memoria,
nell’ultimo
desiderio
prima che
l’anima fugga
di nuovo
nel vento.
Quel
rantolo di dolore
ho
trasformato in terrore,
chi pensa
di aver ucciso
l’amore.
Il grido
ho trasformato
in eterno
sorriso.
Non è
insano tormento,
ma
ululato che spezza il vento.
Mi
guardano fieri lungo la via,
mi
seguono muti fino alla piazza,
mi
indicano il posto
e mi
insegnano le parole..,
del loro
segreto amore.
Io non
faccio null’altro
che
ricambiare gentil cortesia,
e cantare
il dolore oramai muto
di un
uomo e una donna,
ora mi
fanno eterna compagnia.
Nel
segreto di una verità…
che mai
sarà dottrina,
perché
racchiusa nel silenzio
di ogni
rima e strofa
nascosta.
Eterna
poesia dell’anima mia! (71)
Son io
quell’uomo che cammina
senza
sera e mattina,
vago pure
di notte a vegliar
le porte.
Ogni
uscio della falsa dottrina,
mi porta
pure a sfidare
la mala
sorte,
di ogni
ora del giorno e della notte.
Sull’uscio
dell’ovile
per
scolpire di rosso
il loro
dormire.
Son io
quell’uomo senza ora,
vago
contento…,
senza
forma né tempo,
lontano
dal perimetro
di una
falsa geografia.
Li vuole
tutti nel circolo
d’una pia
illusione,
inganno
imperfetto nominato tempo.
A spasso
con l’ora che segna
il nostro
destino e l’ultima parola,
…bruciata
senza memoria. (72)
Contar i
minuti d’un campanile
del suo
troppo rumore,
per
radunar la folla nel rito,
senza la
presenza
di alcun
Dio.
Per
radunar la gente,
solo per
veder morir
un
innocente.
La
campana annuncia la venuta,
lento
sacrificio mai spento,
solo un
uomo che urla
nel
vento.
Giammai
raccolsi pentimento,
in quel
grido di rabbia
lasciato
al vento.
Giammai
vidi peccato
nel suo
amore braccato,
ora corre
senza lamento…,
libero da
ogni tormento. (73)
Son io il
vento che lo vide morire,
son io
l’acqua che placa la sua sete,
son io il
fuoco che riaccende
il suo
vago ricordo,
son io la
terra che culla il sogno
raccolto.
(74)
La donna
gli fa compagnia,
china
ritorta
come una
povera arpia.
Nell’ora
stabilita
il boia
canta la sua litania,
un Dio
che non perdona
per
questa via. (75)
Occhio
del suo tempo….,
mentre
noi vaghiamo
senza
neppure una fossa.
Solo la
luce di un altro Dio
che non
concede fissa dimora.
Ci fa
strisciare, correre poi volare….
anche di
notte….,
per
punire la loro triste sorte.
Bestie
contorte
chiuse
nella notte
a
contarne le ore,
al grido
di un lupo
che non
chiede mai aiuto. (76)
(C. Ginzburg, i benandanti; Giuliano Lazzari, Primo Dialogo con la
creazione, Fr. 4/11 & 59/76; da
Frammenti in Rima)
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