giuliano

martedì 30 agosto 2022

MECCANICI (9)

 










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& a caccia di noi Lupi  (12/3)







 

Oro avverso alla lingua mannaia del sano palato, bocca del più intonato grammaticato… composto strano nobile verso infierire, quantunque sempre un poco alla ‘tavola’ masticato e da una preghiera ringraziato nonché omaggiato.

 

Giacché fu a loro donato come Comandamento:

 

‘va! Saccheggia il mondo intero, e divora ogni immonda Bestia a tempo pieno, senza più creato e peccato haver commesso’.

 

L’estinzione d’ogni Elemento come un fulmine a ciel sereno ogni tanto rimembra e ravviva la Ragion persa del ‘mostro’: vaga come un prometeico Golem a caccia del suo Signore e padrone.

 

Di colui che lo havea creato più bestia che umano!

 

Tutto ciò al rogo o alla mannaia del camino, allieta il ricco palato accompagnato dal fedele disgraziato ubriaco, con l’intero Teatro esposto al periglioso fuoco nemico, di colui cioè, che di noi si vuol cibar con un sol boccone, come il pluridecorato cuoco detto Mangiafuoco, la più nota osteria del rione.




 Oggi, infatti, più d’un cervello è squilibrato, si potrebbe anzi domandare: qual cervello non è così. La Grecia  ebbe sette Savi, ma qual vanto per lei se il numero de’ suoi Savi avesse agguagliato quello de’ nostri pazzi!

 

Il miglior Teatro meccanico& di prosa, che sia aperto in ogni stagione, è il Teatrino Meccanico dei  Cardinali.  

 

Mi direte che non vi si recita mai prosa.

 

Per questo è il miglior Teatro di prosa!




Quel Teatrino è una meraviglia: nella Compagnia il solo fatto un po’ comune è che non ci è un attore, il quale sappia parlar italiano. Ciò accade in quasi tutte le nostre Compagnie drammatiche. Mi diceva il proprietario del Teatrino Meccanico:

 

‘I miei attori sono di ferro. Li potreste far muovere con ogni calamita: solo quella de’ guadagni o dell’ambizione li muovono come Prometeo! Resistono a ogni fatica; ce ne sono di quelli che, da quarant’anni, vengono ogni sera su la scena: e non sono ne ridicoli né commendatori, né esigenti, ne noiosi. Li vedete sempre freschi, specialmente quando sono stati tinti da poco. L’esser tinti è una loro debolezza, una delle poche, le quali abbiano comuni con i più grandi attori!’.

 

Lo ascoltavo questo filosofo: e, con la mia attitudine, lo incoraggiavo a parlare. Levando dal palchetto di uno scaffale una figurina, le cui giunture cigolavano, disse:

 

‘Ecco la mia prima donna: ha viaggiato con me in Francia, in Spagna, in Germania, in Inghilterra, in Italia. Non mi ha mai costretto a chiuder il Teatro una sera per indisposizione. Ha carattere e viscere di ferro!’.




E continuava a andar qua e là, carezzando or questo or quello de’ suoi minuscoli attori.

 

‘Tutta brava gente, e che posso assicurarvi, non m’ha dato mai un dispiacere! Ciascuno di loro è contento della sua sorte: se una sera, alla rappresentazione, uno è applaudito più dell’altro, non c’è caso che ritornino tra le quinte con l’idea di mangiarsi gli uni agli altri l’accresciuto naso.... Ma lo avete sentito il più bravo detto il Drago? Lo avete ascoltato all’ultima Prima del Teatro? Alla comunione senza liberazione alcuna, ovvero, rimpianta castigata Gerusalemme, ed hora celebrata anche alla Scala, giacché il Duomo infortunato. Così interpretata piangeva per il nobile suo successore, con impareggiabile scena che il palco quasi delirava alla Borsa di Amleto suo vero proprietario. Dopo la banca un nuovo Tempio. Non c’è tra essi chi voglia insegnare allo Shakespeare la letteratura drammatica, al Bismark la politica, ai letterati la critica, ai credenti la buona Fede’.




Quel teatrino è un mondo in piccolo, e un mondo che desta la più spontanea ammirazione.

 

Per esempio, siamo al temporale. Vedete come il vento agita tutto all’intorno, con quanta naturalezza tutto è studiato; eccovi il brav’uomo col suo ombrello in mano, che lotta col temporale, e il fiotto del vento che rovescia l’ombrello: ad un altro porta via di testa il cappello. È curioso vedere andare, tornare indietro uomini donne, curioso vedere il cacciatore che spara un colpo, il fuoco che scintilla, e il cane che corre…

 

A tal proposito voglio hora ravvivare la memoria di così nobile cacciatore con un componimento antico a lui dedicato…





  

Cinque compagni un giorn’ andorn’ a caccia,

E questi furno, se ben mi raccordo,

Un senza piedi, un muto, un ciec’ e un sordo,

Ed un che li mancava ambi le braccia.

 

E mentre ogn’un di questi si procaccia

L’un più de l’altro a la campagna, ingordo,

Cercando non da pazzo o da balordo

Ma da bon cacciator che si procaccia.

 

Ecco, for da un cespuglio appresso un fosso

Una lepre smarrita ferma stare,

Tal ch’ li andorno tutti cinqui addosso.

 

Il sordo prima udì perché squassava

Le foglie ov’era ascosa la meschina,

E che tacess’ ogn’un così parlava.

 

Ma il cieco che guardava

La vide che fuggir facea pensiero,

E il muto gridò forte: “Cavaliero!”

 

Ond’essa sul sentiero

Sbalzò fuggendo lieve com’un vento,

Ma il zoppo a seguitarla non fu lento,

 

E in passi più di cento

La giunse, perché il can l’aveva uccisa,

Onde ciascun crepava dalle risa.

 

E in più parte divisa

La miserabil lepre in quella caccia

Di bocca a il can la tolse il senza braccia.

 

Hor parmi che si faccia

Un consiglio fra lor senza tardare,

A chi di lor la lepre abbia toccare.

 

Dice il sordo: “Mi pare

Ch’ella debba esser mia senz’altro dire,

Perché di voi fui il primo a udire.”

 

“Tu te ne poi mentire”,

Disse il cieco, “E la è mia di ragione,

Perché prima la vidi nel macchione”.

 

“Ed io farò questione”,

Rispose il muto, “Se a me non la dai,

Che il primo fui che ‘cavalier!’ gridai”.

 

“S’io corsi e la pigliai”,

Soggiuns’ il zopp’ con voce umil e pia,

“Perché non deve dunqu’ ella esser mia?

 

Questa non è bugia,

Che se voi stavi saldi, i’ sol voleva

Correrli dietro, s’ella non fuggeva”.

 

Il monchin poi diceva:

“Che state a contrastare, oh voi, se tocca

A me, perché la tolsi al can di boccha.

 

E vo’ con quatte broccha

Cucinarmela, e poi da noi mangiata

Sarà la meschinella, s’a voi quata”.

 

All’hor con faccia irata

Replicò il sordo: “Ella è mia senza dolie,

Perché prima l’udì fra quelle folie.”

 

E con maligne voglie,

Voltossi con molt’ira al senza braccia

E lui li diede un pugno su la faccia.

 

Il cieco, a tal minaccia,

Vedend’ i doi compagni in quella stretta,

Disse col zoppo: “Andiam a far vendetta.”

 

All’hora con gran fretta

Il zoppo corse e seco si mischiava,

E insieme ciaschedun si pettenava.

 

E ben forte gridava il muto

Col dire: “Aiuto! Aiuto!”,

Onde un villan fu a quel rumor ridutto,

 

Qual, essendo venuto

Fori d’un bosco con il suo bastone,

Gridando: “Perché fate voi questione?”

 

Ma, avendo la tenzone

Udita di costor, e lor sermone,

Si risolse di far a quei ragione,

 

E levando il bastone

Incominciò con impeto e ruina

A dare a ciaschedun su per la schina,

 

E poi, con tal rovina,

Gridò: “Fermate! Che con questo legno

Over darete a me la lepre in pegno”.

 

E quei, con poc’ ingegno,

Gli dan la lepre in mano, oh che pazzia,

Esso la tolle e poi si fuggi via,

 

Onde con pena ria

Lasciò quelli scherniti e star in forsi,

E d’aspettarl’ ogn’uno si risolse.

 

Ma poi ogn’un si tolse

Di villa e ritornaron senza caccia,

Il senza piedi, il mut’, il cieco e il sordo,

E quel che li mancava ambi le braccia. 


(G.C.C)


[Prosegue con il capitolo quasi al completo...]










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