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I nostri primi sogni i nostri primi pensieri (5)
.... Di
altri, e che in quelli più antichi (che gli evoluzionisti datano da 1,5 a 4,4
milioni di anni) le caratteristiche umane sono combinate con quelle della
scimmia antropomorfa. Le testimonianze sono talmente evidenti che non è più il
caso di metterle in discussione.
Prendiamo l’Australopithecus afarensis, la famosa Lucy. I resti fossili del tipo
di quelli di Lucy scoperti nel nord-est africano sono datati da 3 a 3,8 milioni
di anni. Si trattava di una specie di un gruppo vittorioso, quello delle
australopitecine o grandi scimmie dei boschi, come le chiameremo, che
comparvero circa 5 milioni di anni fa e sopravvissero 4 milioni di anni circa.
I loro corpi avevano le dimensioni degli scimpanzè moderni. Avevano il
cervello, la bocca e probabilmente l’intestino grandi come quelli delle grandi
scimmie. Le mani, le spalle e la parte superiore del corpo dimostravano che
erano abili scalatori e che probabilmente potevano stare a penzoloni tenendosi con una sola mano come le grandi
scimmie moderne. Eppure, per diversi motivi, non assomigliavano alle grandi
scimmie di oggi. La struttura dei piedi, delle gambe e delle anche mostrano che
senza dubbio camminavano eretti bene quanto noi. Nemmeno i denti erano come
quelli delle grandi scimmie. I molari, in particolare erano molto più grossi di
quelli umani o di quelli delle grandi scimmie, sebbene fossero ricoperti da uno
strato di smalto spesso, come quelli umani, mentre negli scimpanzè e nei
gorilla lo strato dello smalto è sottile. Gambe, bacino e denti smaltati come
gli umani. Un miscuglio vero e proprio. Queste grandi scimmie, forse sei o più
specie, vissero nelle boscaglie africane per 4 milioni di anni circa. A grandi
linee, la loro storia è la nostra preistoria, che si protrae verso il presente
anche dopo il periodo in cui, circa 2 milioni di anni fa, il cervello di una
specie di grande scimmia dei boschi crebbe in dimensioni, convertendola in una
creatura con i primi bagliori di umanità. E noi vogliamo sapere il più
possibile sulla vita e la provenienza di queste australopitecine. Sembrerà
strano, ma un buon inizio è osservare le grandi scimmie viventi.
(Wrangham /Peterson, Maschi bestiali, basi
biologiche della violenza umana)
Questa è la nostra stessa motivazione, la
conoscenza è il saper indirizzare correttamente i metodi di ricerca, gli stessi
che nella fase di assemblaggio di un moderno telescopio e della successiva
messa in orbita, rendono chiare all’occhio quelle affinità che ci guideranno
con più sicurezza su uno spazio infinito come l’Universo. Cercherò, nella
profonda vastità di esso, tutte quelle coordinate che mi avvicinano di più alla
osservazione di una probabile verità, una in più rispetto alle presunte
ottenute. Questo volgendo per lo più lo
sguardo al passato. Dando per scontato che il passato come il futuro segue
una linea irreversibile nel tempo perché entro la materia. Io parto dalla
premessa che un mio aspetto essenziale ma non quantificabile non ha una ‘direzionalità
nel tempo’, è della stessa sostanza di cui è fatto (un probabile) Dio, per cui
egli è in me, quanto io in lui. Lo sforzo di questo ‘telescopio’ è individuare
quel punto senza tempo fuori dal Tempo, nell’antimateria prima di un ‘nulla
apparente di vita’ e ancora prima di essa. Tornare progressivamente a quella
condizione di tutto e nulla. Non è quindi solo porgere la percezione sul
‘nulla’, nella semplicità o complessità che il termine potrebbe sottintendere
quando riesco per gradi a risalire la china del tempo, ma condizione
imprescindibile nel momento in cui attraverso tutte le fasi con i relativi
nessi casuali che mi hanno indotto verso una regressione culturale, approdo,
attraverso la mente del ‘primitivo’, e dopo di lui, gli antichi che gli sono
succeduti, a frammenti di vita. Ed alla
sua interpretazione.
I tre rituali battesimali catari che
possediamo sono concordi nell’inserire all’interno del sacramento la lettura
del Prologo del ‘Vangelo di Giovanni’, cioè i versetti 1-17 del primo capitolo,
ma solo due, quello provenzale e quello slavo, ne riportano il testo per
intero. Uno dei concetti ricorrenti in questo brano riguarda l’opposizione dei
contrari, motivo essenziale per tutto il filone dualistico antico, dai primi
gnostici, attraverso manichei, messali, priscillianisti, per arrivare ai
pauliciani, ai bogomili e infine ai catari, come rileva l’autore del ’Tractatus
Manicheorum’ secondo cui tali eretici rifacendosi ad un versetto biblico di
Gesù Siracide: “omnia duplicia, unum contra unum”, predicano l’esistenza di
“duos mundos, duo regna, duos celos, duas terras, et sic omnia dicunt esse
duplicia”. A questo proposito è interessante affrontare la questione, in verità
estremamente complessa dei versetti 3-4 del Prologo giovanneo: “omnia per ipsum
facta sunt et sine ipso factum est nihil quod factum est in ipso vita erat et
vita erat lux homium”, in cui due sono i problemi nodali legati
all’interpretazione. Il primo è quello del senso di dare alla frase scandendo i
vari elementi in essa presenti con il ricorso a cesura o pausa, che a livello
di testo scritto si esprime mediante segni di interpunzione. Il secondo
problema è quello del significato che i catari attribuivano al termine ‘nihil’
e, per contro, ad ‘omnia’.
(Discussioni sul nulla tra Medioevo ed età
moderna)
Riappropriato di quella coscienza che ci è appartenuta e
che ci apparterrà sempre, e che inevitabilmente mi porta su sentieri di
intuizioni tradotte come singole stratigrafie di terreno di un ‘linguaggio
comune’ (soggetto a più interpretazioni), di una ‘visione
comune’ (soggetta a più sguardi), appartenuta a tutti gli esseri
viventi (soggetti ad infinite connessioni). Ragione per cui
la semplicità di tal ‘visione’ potrebbe apparire primitiva, priva cioè, di quei
significati che cerchiamo. E forse anche inutile. Una vocale o consonante
‘comune’, che oltre a quel nulla apparente di un principio, di un mare, quale
inizio della vita, sembra priva di quella vista che stabilisce lo stato primo o
antecedente ad essa. Da qualche parte deve esserci, è questa la scintilla nella
dimensione nascosta che cerco. Perché so esserci, ed esistere.
Uno sguardo attento allo specchio è una
esperienza snervante. A nessuno di noi piace vedere i nostri difetti. Ma anche
se è uno sguardo che fa paura, perlomeno ci suggerisce dei rimedi. Accettare il
fatto che gli uomini abbiano una storia molto lunga di violenza implica che
sono stati plasmati nel temperamento per usare la violenza con efficacia e che
perciò faranno fatica a frenarla. E’ forse allarmante riconoscere l’assurdità
del sistema: un sistema che lavora per favorire i nostri geni e non la nostra
coscienza e che inavvertitamente mette in pericolo il destino di tutti i nostri
discendenti. Ci aiuta studiare i nostri difetti? Ci Aiuta ad avvicinarci a quel
che vorremmo, a creare un mondo dove i maschi siano meno violenti di adesso? Sarebbe
bello rispondere ‘si certo’. Ma nulla indica che essere consapevoli del
problema riduca efficacemente la violenza proiettata verso l’esterno della
società umana: il problema di Noi contro Loro dell’aggressività intergruppo. A
livello internazionale è certamente difficile immaginare come un disegno
evolutivo possa influire sui calcoli e le ispirazioni dei leader, messi sotto
pressione per lavorare nell’interesse della propria tribù, nazione o impero. E
la storia indica che l’analisi intellettuale ha avuto scarso impatto nel corso
delle aggressioni intergruppo;se esaminiamo le società, dall’antica Grecia alle
nazioni moderne contemporanee, scopriamo motivi non chiari nell’andamento
totale delle morti causate dalla violenza intergruppo, che sono comprese tra 5
e 65 per 100.000 all’anno. Ogni generazione può sperare che l’ultima guerra
scoppiata sia davvero l’ultima, ma finora non ci sono segni che sia così. E
mentre il temperamento del maschio umano rimane sorprendentemente stabile, la
tecnologia umana improvvisamente, nell’ultimo istante storico, ha sconvolto
tutto. Uno dei pregi della visione evolutiva è che presenta gli umani come un
unico gruppo, che venera un unico antenato, mette in rilievo l’unità e
banalizza le nostre differenze. Nell’immediato i rimedi contro la violenza
maschile appartengono alla sfera della filosofia politica e non a quella
biologica.
(Wrangham/Peterson, Maschi bestiali basi
biologiche della violenza umana)
Anche la guerra è sinonimo aggregante e
disgregante, ugual consonante o vocale del primo linguaggio, le situazioni
avverse che ne scaturiscono con lunghi monologhi per legittimare posizioni di miti differenti nella verità della vita
stabilisco erroneamente il grado di evoluzione, non invece i miti adottati da
singole civiltà. Verifichiamo la veridicità dei motivi scatenanti delle
premesse oltre gli inevitabili interessi di cui un singolo mito si fa portatore
di un linguaggio comune cancellando di fatto la comprensione e non solo, di
opposte visioni di altrettanti miti, per l’appunto.
Manifestamente troppo generica è ad
esempio la formulazione proposta da Leach secondo la quale il mito
costituirebbe l’espressione di realtà inosservabili in termini di fenomeni
osservabili, e inappropriata risulta anche quella definizione,che vari autori
hanno ricavato dalla lettura dei testi levistraussiani, definizione secondo la
quale, per usare la precisa formulazione offerta da Paolo Fabbri, il mito
sarebbe riconoscibile come un ‘algoritmo’ di enunciati che tenta di risolvere
sul piano immaginario delle contraddizioni reali o immaginarie entro o tra i
subuniversi semantici che articolano una cultura data.
(G. Ferraro, Il linguaggio del mito)
Le simmetrie messe in luce tra miti di
popolazioni estremamente lontane e diverse tra loro possono essere ben reali, e
non di meno è chiaro che i Borono del Brasile quando raccontano, comprendono o
pensano i loro miti non sono minimamente toccati da quando possono pensare o
raccontare gli Arapaho delle pianure occidentali degli Stati Uniti. Ci si può
chiedere allora se il modo in cui è possibile accedere al senso dei miti
attraverso una analisi condotta da membri di una cultura estranea debba essere
così interamente diverso dal modo in cui gli stessi miti sono percepiti e
compresi all’interno della cultura che li produce. Si resta inevitabilmente
perplessi, da un lato, di fronte ad una analisi che ricorre magari a un
racconto nordamericano per chiarire il senso di un episodio d’un mito del Mato
Grosso; dall’altro lato, nel caso si debba riconoscere la correttezza dei
risultati raggiunti secondo tale procedimento, si porrà allora spontaneamente
la domanda: come è allora possibile che un Indio del Mato Grosso, certamente
all’oscuro delle mitologie di popoli così lontani dal suo, possa comprendere il
senso dei racconti della sua stessa tradizione? La conclusione, come si vede,
può essere addirittura paradossale. E si potrebbe complicare il problema
chiedendosi se poi, in effetti, la pretesa singolarità e totalità di ciascun
complesso mitologico non sia in fondo altro che il risultato di un’illusione.
(G. Ferrero, Il linguaggio del mito)
Per superare questo punto, questo scoglio,
questa liscia parete, abbisogno di nuove discipline e analoghe simmetrie. Se
diamo per scontata l’innata violenza dell’uomo, nelle sue specifiche condizioni
di ‘uomo’ appunto, evidenzio un assunto di natura biologica, cioè, intendo
tutte quelle condizioni che hanno permesso la formazione di un essere dotato di
vita da quando è uscito dal ventre liquido della madre che lo ha tenuto in
grembo per lungo tempo.
Nello studio proprio della stratigrafia della
terra rileviamo un numero di informazioni riconducibili in diversi ambiti della
scienza, e non per ultimo spiegano anche argomentazioni nella sfera del mito
analizzato secondo criteri antropologici. Ma, senza l’analisi di una moderna
disciplina che studia appunto la geologia non posso effettuare le dovute
connessioni che in ciascuna epoca stabiliscono le condizioni della vita ed i
relativi miti adottati. In sostanza non potremmo orientarci attraverso la
difficile geografia umana se la dissociamo dal contesto naturale dove nasce con
tutte le relative connessioni quali radici non viste ma costanti nello sviluppo
evolutivo. E quindi avviarci verso una probabile soluzione della sua biologia
che fa dell’uomo quell’essere demoniaco di cui la violenza sembra la sua sola
compagna e padrona.
La Terra si comporta come un
gigantesco magnete attorniato da un complicato campo magnetico invisibile che
permea ogni cosa. Il campo geomagnetico è generato da correnti elettriche nel
nucleo fuso della Terra. Il campo magnetico che misuriamo sulla superficie
terrestre è tuttavia la sovrapposizione e la somma di diverse componenti di
origine sia interna che esterna: il campo del nucleo, i campi generati dalla
magnetizzazione delle rocce, le correnti elettriche che fluiscono nella
ionosfera e nella magnetosfera e altre correnti indotte. Nel corso dei tempi
geologici questo tipo di polarità (normale) si alterna con una polarità inversa
durante la quale il polo nord del dipolo terrestre coincide approssimativamente
con il polo nord geografico. L’analisi della magnetizzazione rimanente
fossilizzata nelle rocce di una successione sedimentaria permette di rivelare
la presenza nel corso del tempo di inversioni di polarità del campo
geomagnetico.
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