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I nostri primi sogni.... (7)
Gli aspetti e le successive interpretazioni.
Il conflitto di due culture con i relativi miti trasmutati nella sfera del
divino sono stati lentamente soppiantati dal prevalere di una divinità
incarnata, evoluzione del mito stesso, dove in sua assenza apparente, la
materia teologica elevata impropriamente a fonte ispiratrice di un potere
spirituale è venuta progressivamente ad asservire la parte irrazionale
dell’uomo, che con la parvenza di una presunta verità (incarnata) non ha più
bisogno di giungere ed aspirare ad essa.
Che sia avvenuto per caso o per intenzione
divina, Gerusalemme è divenuta il tempio di quattro diverse religioni, che
scaturiscono come i quattro fiumi del paradiso fluendo dalla sorgente sotto il
Tempio verso le quattro direzioni, gli ebrei a oriente, i mussulmani a
meridione, i cristiani a occidente e, in direzione del nord, i discepoli di
quell’antico sistema religioso che precedette gli altri. Esiste quindi una
quarta religione che prende parte alla rivelazione del tempio a Gerusalemme, la
più antica e la più profonda. E’ la religione pagana, il cui nome, dettato dai
suoi nemici, è dispregiativo e suggerisce ignoranza e superstizione; in modo
più appropriato viene definita la religione classica o dei filosofi. I suoi
ideali sono la verità, la saggezza e la conoscenza; non richiede credenze
artificiali e tra le religioni è l’unica a potersi dire perenne: è radicata
nella natura e nell’uomo, per cui ciclicamente riaffiora.
(J. Michell, Il segreto del Tempio di
Gerusalemme)
Il terremoto culturale lo misuro attraverso il ‘Contra Galilaeos’
quale ultima e disperata difesa di quella razionalità che fa di Giuliano un
moderno gnostico portatore di quella verità concettuale che è il fondamento di
un infinito mondo razionale. Non a caso i filosofi sono anche i precursori di
una scienza quale la stratigrafia,
come abbiamo letto precedentemente. Quindi lo scontro tra diverse mitologie ha
distribuito la ramificazione evolutiva in opposte evoluzioni ed esse hanno
condotto ad una stratificazione sociale ben distinta nel pensiero e l’azione.
Cortés è uno dei tanti esempi.
Certo pochi o nessuno si resero conto di
affinità fra l’ambiente il dio piumato o il serpente ed il mito corrispondente,
intuizione di una evoluzione genetica che dall’uno si ramifica nelle diversità
della specie. Lo stesso serpente ha assunto linguaggi ed immagini assai diversi
in altre mitologie, che giustificano ancor oggi il confronto legittimando il
criterio tra l’inferiore dal superiore, in maniera disgiunta da un probabile
anello evolutivo che ci fa tutti indistintamente partecipi alla vita. Ma il
conflitto che risiede alla base di essa lo posso ricondurre direttamente alla
forza originaria del mito stesso, una forza generatrice che attraverso la
collisione crea la vita, quella vita in continua mutazione che tende ad
attestarsi sempre in condizioni ottimali e adattarsi alle specifiche condizioni
ottimizzando i suoi principi. Il mito è intimamente legato alla terra ed è una
sua rappresentazione. Quelli più antichi che talvolta appaiono immutati anche nella
loro razionalità originaria vengono spesso trasmutati in una progressiva e
naturale evoluzione culturale, mutando le originarie intuizioni sul vero su cui
si basano tutte le connessioni con la natura. Il riflesso di figure perfette
platoniche è incentrato su un disegno di equilibrio originario, che è nelle
premesse della natura stessa. Se modificata questa visione, alteriamo i suoi
fondamentali cicli ed equilibri. Anche se nel linguaggio della moderna scienza
ho dovuto affrontare un ‘superamento’ di questo concetto, un ‘superamento’
però, non una sistematica cancellazione. Uno strato si è creato o frapposto ad
un altro. I sedimenti della ricerca rivolta al passato quanto al futuro
poggiano appunto su questa visione introspettiva ed analisi. Nell’universo di
talune simmetrie ci devono essere dei corrispondenti al vero.
Quindi la forza del mito.
La complessità e l’intelligenza animale
sono aumentate con costanza nei 4 miliardi di anni di storia della vita. Un
miliardo di anni fa la specie più intelligente era qualche sconosciuto
microscopico pezzetto di sostanza appiccicosa. Cento milioni di anni fa, forse
un pesce, o un mammifero primitivo. Dieci milioni , una grande scimmia o un
delfino. Un milione di anni fa, i primi ominidi, magari già sul punto di usare
una forma semplice di linguaggio. In un altro mondo, dove gli estremi climatici
del Pleistocene fossero stati un po’ mitigati, dove un asteroide non avesse
schiacciato la maggior parte della vita, dove la gravità fosse stata più forte
e i continenti più mobili e l’acqua più abbondante, in ogni periodo le
particolari specie con il cervello più grande sarebbero potute essere
differenti. Il collegamento di un grosso potenziale cerebrale con le
inclinazioni demoniache maschili assomiglia a una tragica coincidenza di catene
casuali indipendenti. Ma c’è qualcosa in più. Le menti intelligenti sono
responsabili di forme nuove di aggressività irrilevanti per animali privi di
una buona memoria e di rapporti sociali a lungo termine. Quel grande cervello
umano è il prodotto più temibile della natura. Allo stesso tempo però è il
regalo più bello e più utile. L’intelligenza ci è familiare, è un vecchio
libro, una vecchia amica.
Ma la saggezza cos’è?
Se l’intelligenza è la capacità di
parlare, la saggezza è la capacità di ascoltare. Se l’intelligenza è la
capacità di vedere, la saggezza è l’abilità di vedere lontano. Se
l’intelligenza è un occhio, la saggezza è un telescopio. La saggezza
rappresenta la capacità di lasciare l’isola dei nostri sé e di attraversare
l’oceano. Vedere noi stessi, forse come fanno altri, a vedere gli altri entro e
oltre la prima dimensione o il contesto: di tempo, di spazio, di esistenza.
Saggezza, in altre parole, è prospettiva. (Wrangham/Peterson, Maschi bestiali,
basi biologiche della violenza umana)
Questa conclusione semplice per quanto
lapidaria è una verità imprescindibile.
(Giuliano Lazzari, Il Viaggio, Ed.
Uniservice)
Ritorno al motivo che ha
suscitato tal dire riproposto nel ‘sentiero’
della nostra disquisizione, il motivo ‘aggregante’ e ‘terapeutico’ che fa
dell’epistola principio di confronto e riflessione: i mali per i quali la tua
‘disciplina’, con il bagaglio della conoscenza e capacità di analisi e di
approfondimento ha evidenziato (mi è sembrato di capire, in ultima analisi) nei
principi di un malessere generalizzato nella scala dei valori (riflessi nelle
sintomatologie odierne), con un nome proprio, ma che in realtà ne cela altri.
‘Depressione’.
Disciplina che affonda le sue radici non solo nella ‘psiche’ umana, ma
anche in altrettante connessioni scientificamente (o non) accertate con cui la
stessa si deve confrontare, misurare e proporre, per non rimanere confinata
alla singolarità della sua funzione; ma rapportarla, giustamente, al grado di
quella universalità e interdisciplinarietà di cui l’uomo,
detto evoluto, abbisognerà nel millennio prossimo venturo, in quanto appartiene
ad un grado di ugual Universalità, che se privata o snaturata della vera e sola
connessione stratificata nei millenni della sua graduale evoluzione, genererà
tutte quelle malattie di cui ha rilevato una dimensione.
Malattie che ‘evolveranno’ in una nuova ‘stratificazione’ genetica ed
assumeranno nomi nuovi nel pantheon della sua ‘crescita’, ma, se non
correttamente delineate nella loro specificità e motivazione scatenante, come
quel ‘cancro’ con cui la medicina si deve costantemente misurare, ne
genereranno di nuove, ‘evolute’ in una ‘spirale’ non confacente con il reale
disegno Creatore dell’Universo. Rapportare l’uomo ai suoi eterni valori, anche
evoluti nel mito, è opera non solo scientifica, ma teologica, filosofica e
profetica, come fu, come ben sai, l’opera di Jung rispetto al maestro Freud.
Una frattura della Terra che ha portato ed evoluto la scienza
(psicologica) ad una dimensione universale e non ortodossa come il maestro
insegnava. Ponendo l’allievo in una condizione diversa e direi ‘sciamanica’
nella specificità della disciplina
scientifica, estendendo le motivazioni iniziali ad un ruolo ‘eretico-profetico’
di cui ne approfondì aspetti e temi, imprescindibili per quella capacità di
analisi e terapia in grado di poter curare ed alleviare i ‘mali’ terreni cui
giornalmente l’uomo deve fare i conti, e di cui ne ha svelato miti e
connessioni.
Se fosse rimasto ancorato a quella ‘ortodossia’ iniziale la geologia
della Terra non sarebbe certo evoluta, ma ancorata al piatto mare di Tedite
dove tutto ebbe origine, e dove la Natura del nostro inconscio (e sub…) non
avrebbe conosciuto quegli aspetti diversificati ed evoluti nei vasti panorami
dell’essere ed appartenere alle infinite connessioni che quel primo mare generò
per le condizioni ottimali della vita.
Con tale sforzo, che a taluni, soprattutto per gli addetti ai lavori,
potrà apparire ridicolo, in quanto a compierlo non è uno scienziato ma un umile
autodidatta, concludo questa nuova epistola, con accenni bibliografici circa
quel Theodor Strehlow figlio del più conosciuto Carl, il quale in ugual
frattura (precedentemente detta) dovette fare i conti con l’ortodossia
incarnata nel mondo accademico da quel Spencer il quale rifiutava una visione
religiosa nel panteon mitologico partorito dagli aborigeni (troppo primitivi…).
Successivamente, il figlio Theodor, proseguì l’opera intrapresa dal padre,
difendendo quel mondo antico attestato per taluni all’età della pietra, ma di
cui ne approfondì legami e ‘visioni’ di un ‘sogno
comune’ ben stratificati nell’evoluzione del mito riflesso nella
religiosità, aspetto e denominatore comune dell’evoluzione umana.
Prima che l’uomo bianco avesse messo piede sul loro territorio, gli
aborigeni dell’Australia centrale avevano raggiunto un ammirevole adattamento
al loro ambiente, non solo dal punto di vista psicologico, ma anche sociale;
persino le loro concezioni religiose erano state adattate alla geografia del territorio.
Cooperazione, non subordinazione; differenziazione senza disuguaglianze;
tolleranza per i costumi di altri popoli nelle loro aree e rispetto per i
terreni di caccia e raccolta di altri gruppi: erano questi i principi sociali e
politici su cui si basava l’organizzazione della comunità aborigene australiane
dell’interno.
E il monototemismo individuale, in queste comunità politotemiche,
forniva un sistema perfettamente calibrato di credenze religiose, che si
armonizzava con quei principi e li convalidava. La religione totemica
contribuiva anche a proteggere la fauna e la flora indigene. Gli animali e gli
alberi australiani erano provvisti di adeguati santuari negli inviolabili
luoghi sacri, e il loro collegamento con
il rituale religioso ne assicurava la sopravvivenza anche durante le peggiori
siccità. La dignità conferita dal totemismo alla vita vegetale e animale
contribuiva così, in Australia centrale, a preservare l’equilibrio della
natura. Un sistema di credenze religiose può essere valutato sia in rapporto
alla sua logicità e validità teoretica, sia sulla base del valore pratico,
quale forza trainante nell’esistenza dei credenti.
Se adottiamo il secondo criterio, dobbiamo ammettere che la religione
dell’Australia centrale ha reso due servizi ai suoi fedeli, nello stato di
conoscenza della Natura in cui essi si trovavano prima dell’avvento dell’uomo
bianco: ha dato loro un alto senso di valore della persona, basato sul
sentimento dell’unità con l’Eterno, e li ha resi affabili, tolleranti e disponibili
nei confronti dei loro simili, più di quanto sarebbero potuto esserlo.
Altrimenti contrariamente alle nostre normali aspettative, entrambi questi
atteggiamenti sembrerebbero scaturire proprio dal monototemismo individuale:
non vi era nessun Essere Celeste Supremo, che potesse essere fatto oggetto di
adorazione da una parte di un ristretto gruppo di persone e attraverso un’unica
forma di culto esteriore, da imporre con la forza a tutti i credenti.
Le credenze religiose di ciascuno venivano determinate liberamente
dalle relazioni personali con la propria figura totemica; e le pratiche religiose erano modellate
soltanto sulla base del proprio centro totemico e del ‘pmara kutata’ appartenente al proprio gruppo patrilineare.
Nell’Australia centrale, quindi, le osservanze religiose potevano rivelare, da
gruppo a gruppo e da persona a persona, una notevole diversità quanto alla loro
struttura esteriore. Soprattutto, la natura stessa delle credenze religiose
impediva l’insorgere di quel particolare tipo di fanatismo religioso che
avrebbe potuto elevare un piccolo gruppo di uomini ben organizzati ad una
posizione di forte supremazia su una vasta comunità…. Questo sistema religioso, conforme alla geografia locale e
caratteristicamente australiano, crollò quando l’uomo bianco mise piede sulla
terra Eterna. Nell’ottica aborigena, l’amato territorio, strappato senza pietà
ai suoi abitanti originari, divenne una terra asservita e disprezzata i suoi
predoni bianchi. L’Australia centrale veniva per la prima volta sottoposta ad
un inesorabile sfruttamento materialistico, per soddisfare rapidamente
l’avidità dei suoi nuovi abitanti ‘civilizzati’ e di proprietari terrieri,
interessati ad investire altrove i guadagni quaggiù ottenuti. Si sparava agli
animali, spesso semplicemente per ‘sport’, e alberi e pascoli venivano
distrutti a causa di un miope....
(Fotografie di Robert and Shana ParkeHarrison)
(Prosegue....)
(Fotografie di Robert and Shana ParkeHarrison)
(Prosegue....)
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