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L'identità della Natura (29) (&)
...Più o meno negli stessi anni...
Prosegue nel detto...
Dispiacere di cotal 'Compagnia' (Seconda parte) (31)
Per
entrare in una condizione di solitudine l’uomo ha bisogno di allontanarsi tanto
dalla propria stanza che dalla società. Mentre leggo e scrivo non sono in solitudine,
anche se non c’è nessuno con me. Ma se un uomo vuole avvero stare solo, guardi
le stelle. I raggi che provengono da quei mondi celesti stabiliranno una
separazione tra lui e le cose tangibili. Si potrebbe pensare che l’atmosfera
sia stata creata trasparente proprio allo scopo di dare all’uomo, attraverso i
corpi celesti, la perpetua presenza del sublime. Quanto sono grandiosi, visti
dalle strade delle città! Se le stelle apparissero una sola notte ogni mille
anni, davvero potrebbero gli uomini credere e adorare, e serbare per tante
generazioni il ricordo della città di Dio che è stata loro mostrata! Ma
spuntano ogni notte questi messaggeri di bellezza, e illuminano l’universo con
il loro sorriso ammonitore. Le stelle destano una certa riverenza perché,
seppur sempre presenti, sono inaccessibili; nondimeno, tutti gli oggetti
naturali suscitano un’impressione analoga quando la mente è aperta alla loro
influenza. La natura non indossa mai un’apparenza mediocre. E l’uomo più
sapiente non riesce a estorcerne il segreto, né perde la sua curiosità
quand’anche ne abbia scoperto tutta la perfezione. La natura non diventa mai un
trastullo per uno spirito saggio. I fiori, gli animali, le montagne riflettono
la saggezza della sua ora migliore, così come hanno deliziato la semplicità
della sua infanzia. Quando parliamo di natura in questo modo, abbiamo in mente
un sentimento preciso, benché estremamente poetico. Intendiamo l’unità dell’impressione
prodotta dai molteplici oggetti naturali. È questo ciò che distingue il legname
del taglialegna dall’albero del poeta. L’incantevole paesaggio che ho visto
questa mattina è senza dubbio costituito da venti o trenta fattorie. Miller possiede
questo campo, Locke quell’altro e Manning il bosco più in là. Nessuno di loro,
però, possiede il paesaggio.
…Poterono
fare né i leoni né i cannoni Krupp, l’hanno fatto le Alpi... Ho paura!
— Non
lo dite, Tartarino!
— E
perché no! – fece l’eroe con grande dolcezza
– lo
dico perché è la verità...
E
tranquillamente, con semplicità, confessò l’impressione che aveva ricevuta dal
quadro del Doré, quella catastrofe del
Cervino che aveva sempre davanti agli
occhi: ora poiché non amava affatto esporsi a pericoli del genere, avendo
sentito parlare di una guida straordinaria capace di farglieli evitare, era
appunto venuto a mettersi nelle sue mani.
—
Voi, Gonzaga – aggiunse col tono più naturale – non siete mai stato una guida,
vero?
— Ma
sì – rispose Bompard con un sorriso
–
guida sì; soltanto, non ho mica fatto tutto ciò che ho raccontato...
—
D’accordo! – approvò Tartarino.
E
l’altro a denti stretti:
—
Usciamo un po’ sulla strada... potremo parlare con più libertà.
Scendeva
la notte: un soffio di vento tiepido e umido rotolava le nubi nere e bambagiose
nel cielo dove il tramonto aveva lasciato come dei raggi di pulviscolo grigio. I
due amici camminarono a mezza costa, verso Fluelen, incontrando sul loro passo
alcune mute ombre di turisti affamati che tornavano all’albergo, e andarono
anch’essi come ombre, senza scambiare una parola, finché giunsero alla lunga
galleria interrotta dalla parte del lago da belle arcate a balcone.
—
Fermiamoci qui – fece Bompard con la sua voce chioccia che rimbombò come un
colpo di cannone sotto la volta.
E
sedutisi sul parapetto, contemplarono l’ammirabile vista: il lago in basso, e
sopra il lago un’erta scoscesa di abeti e di faggi neri e folti; e dietro,
montagne più alte dalle cime ondulate, e dietro ancora, delle altre sfumate in
azzurro come nuvole; a metà la striscia bianca appena visibile di un ghiacciaio
chiuso fra i baratri, che ad un tratto risplendette di fuochi iridati, gialli,
rossi, verdi: illuminavano la montagna con fuochi di bengala! Da Fluelen
partivano i razzi che in alto poi si rompevano in stelle multicolori, e il lago
era in ogni senso percorso da lampioncini veneziani su battelli invisibili
pieni di gente in festa e di musiche: un vero scenario d’incanto inquadrato fra
le semplici e fredde mura di granito della galleria.
— Che
paese ridicolo, questa Svizzera…
– esclamo
Tartarino.
Bompard
si mise a ridere:
— Ah,
già... la Svizzera... Prima di tutto, la Svizzera non esiste! Oggi come oggi,
la Svizzera come tanti altri analoghi posti delle Alpi o Dolomiti, signor
Tartarino, non sono altro che un vasto Kursaal aperto da giugno a settembre, un
vero Casino panoramico dove viene per distrarsi gente da tutte le parti del
mondo, e che è condotto da una Compagnia ricca a centinaia di migliaia di
milioni, con sede a Ginevra, New York, Mosca e a Londra. Pensate se ce n’è
voluti di soldi per affittare, accomodare, abbellire tutto questo po’ po’ di
territorio: laghi, foreste, montagne e cascate; per mantenere un popolo di
impiegati e di comparse, e per piantare sulle vette più alte alberghi
spettacolosi con gas, telegrafo e telefono...
—
Eppure è vero – pensò a questo punto, a voce alta, Tartarino ricordandosi del
Righi.
—
Altro che vero!... E voi ancora non avete visto niente... Se vi inoltrerete un
po’ nel paese, non troverete più un cantuccio che non sia truccato e pieno di meccanismi
come il palcoscenico dell’Opera: cascate illuminate a giorno, contatori
all’ingresso dei ghiacciai, e per le ascensioni ferrovie idrauliche e
funicolari senza risparmio. Peraltro, la Compagnia, per far piacere alla sua clientela
di inglesi e di americani arrampicatori, ha conservato ad alcune montagne
famose, come la Jungfrau, il Monaco, il Finsteraarhorn, il loro aspetto
pericoloso e selvaggio, nonostante che
anche quelle non presentino ormai più pericoli delle altre.
— Ma
i crepacci, caro mio, quei terribili crepacci... Se, per esempio, uno ci
cascasse dentro?
—
Cascherebbe sulla neve, signor Tartarino, e non si farebbe niente di male: c’è
sempre, laggiù in fondo, un portinaio, un cacciatore o qualche altro che vi
raccatta, vi spazzola, vi sbatte e vi domanda con buona grazia: «Ha bagagli il
signore?»...
— Ma
dite davvero, Gonzaga?
E
Bompard sempre più serio e grave:
— La
manutenzione dei crepacci è una delle spese più ingenti per la Compagnia.
Seguì
un minuto di silenzio sotto il tunnel.
Tutto
ormai taceva d’intorno: erano finiti i fuochi colorati, non c’era più polvere
nel cielo né barche nel lago; ma s’era alzata la luna e dava al paesaggio un
tono diverso eppur sempre convenzionale, bluastro, magnetico, con degli angoli
di una oscurità impenetrabile...
Tartarino
esitava ad accettare come oro colato le parole del compagno. Nondimeno andava
riflettendo su quanto aveva già visto da sé di straordinario in quattro giorni:
il sole del Righi, la farsa di Guglielmo Tell; e le invenzioni di Bompard non
gli apparivano poi del tutto inverosimili, tanto più che in ogni tarasconese il
millantatore è foderato di credulità.
— Ma
veramente, mio caro amico, come spiegate allora certe spaventevoli catastrofi,
ad esempio quella del Cervino?
— È
accaduta sedici anni fa... a quel tempo non c’era ancora la Compagnia, signor
Tartarino.
— E
il disastro dell’anno scorso sul Wetterhorn: due guide seppellite insieme coi
viaggiatori?
— Ma
ogni tanto ci vuole, già, per attirare gli alpinisti... Se in una montagna non
si fracassa mai nessuno, gli Inglesi non ci vengono più... Il Wetterhorn già da
qualche tempo era in ribasso: dopo quel piccolo fattaccio gli incassi sono
subito rialzati.
—
Allora... le due guide?...
—
Stanno benissimo, loro e i viaggiatori: li hanno soltanto fatti sparire
mantenendoli all’estero per sei mesi... È una réclame costosa, è vero, ma la
Compagnia ne ha abbastanza per permettersi simili lussi.
—
Statemi a sentire, Gonzaga...
E
così dicendo Tartarino s’era alzato e aveva poggiato una mano sulla spalla
dell’ex-gerente:
— Voi
non vorreste, vero? che mi accadesse qualche disgrazia... Ebbene, parlate con
tutta franchezza... I miei mezzi come alpinista li conoscete: sono mediocri.
— È
vero, anzi mediocrissimi!
—
Ora, ritenete che io possa, senza espormi troppo, tentare l’ascensione della
Jungfrau?
— per me, ci metterei la testa nel fuoco… Non
dovete fare altro che fidarvi della guida, già!
— E
se mi vengono le vertigini?
—
Chiudete gli occhi.
— E
se sdrùcciolo?
—
Lasciatevi andare... tanto è come al teatro: vi sono i praticabili: non c’è
alcun rischio.
— Oh
se ci foste voi, lassù, per dirmelo, per ripetermelo... andiamo, vecchio mio,
una bella risoluzione.
Venite
con me... Bompard, manco a dirlo! non domanderebbe di meglio, ma ha sulle
spalle i suoi peruviani per tutta la stagione; e siccome Tartarino si
meraviglia di vedergli accettare le funzioni di corriere, di subalterno:
— Che
volete, signor Tartarino... è nel contratto: la Compagnia ha il diritto di impiegarci
come meglio le pare. E qui comincia a contare sulle dita tutte le parti che aveva
fatto da tre anni a quella parte; guida nell’Oberland, suonatore di corno delle
Alpi, vecchio cacciatore di camoscio, antico soldato di Carlo decimo, pastore protestante
sulle montagne...
— Che
roba è? – domanda con sorpresa Tartarino,
E
l’altro, sempre con la stessa calma:
— Ma
sì! Viaggiando per la Svizzera tedesca, vedete, a volte, a delle altezze
vertiginose, un pastore protestante che predica all’aperto ritto sopra una
roccia o seduto sopra un rustico sedile di legno. Intorno a lui si raggruppano,
in pose pittoresche, caprai e formaggiai coi loro berretti di cuoio fra le
mani, donne pettinate e vestite secondo i figurini del cantone; e il paesaggio
è quanto mai carino: pascoli verdi o di fresco tagliati, spruzzi di cascate fin
sulla strada, e su ogni balza della montagna greggi e armenti coi grossi
campanacci sonanti. Ebbene: sono tutte truccature e tutte comparse. Soltanto,
nessuno è a parte del segreto all’infuori degli impiegati della Compagnia:
guide, pastori, corrieri, albergatori; e costoro hanno interesse a non
rivelarlo per paura di far scappare la clientela.
L’Alpinista
rimase sbalordito, anzi addirittura muto: il che per lui era il colmo della
stupefazione. In fondo in fondo, per quanto avesse qualche dubbio sulla
veridicità di Bompard, si sentì rassicurato e più calmo riguardo alle
ascensioni alpestri; e la conversazione si fece in breve allegra: i due
parlarono di Tarascona, delle loro belle scorpacciate di risate di allora,
quando erano più giovani.
— A
proposito di scherzi – disse ad un tratto Tartarino – me ne hanno fatto uno
bellissimo al Righi-Kulm: figuratevi che stamattina...
E si
mise a raccontare della lettera appiccicata allo specchio, a declamarla con
enfasi: «Francese del diavolo... Una mistificazione, no?».
— Chi
lo sa?... Forse... – rispose Bompard che parve prendere la cosa più sul serio.
E s’informò se Tartarino durante il soggiorno al Righi avesse avuto che dire
con qualcuno e si fosse lasciato scappare una parola in più del necessario.
—
Davvero, già! una parola in più! se non si può nemmeno aprir bocca con tutti
questi inglesi e tedeschi che stanno muti come lucci col pretesto della buona educazione.
Peraltro, riflettendo un po’, si ricordò di avere messo a posto, e alla svelta,
una specie di cosacco, un certo Mi...Milanof.
—
Manilof – corresse Bompard.
— Ah,
lo conoscete?... A dirla fra noi credo che quel Manilof ce l’avesse con me per
causa di una fanciulla russa...
—
Sì... Sonia... – mormorò Bompard sovrappensiero.
—
Conoscete anche lei? Ah, compare, che cosina fine! che deliziosa tortorella
grigia! che bottoncino di rosa!...
—
Sonia di Wassilief... È quella che ammazzò con un colpo di rivoltella, in mezzo
alla strada, il generale Felianine, presidente del tribunale militare che aveva
condannato suo fratello alla deportazione a vita.
- Sonia
assassina!? quella bimba, quella biondina!...
ù o meno negli stessi anni....
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