giuliano

domenica 26 maggio 2019

GLI ORRORI DEI GHIACCI E DELLE TENEBRE (23)















































Precedenti capitoli:

Gli orrori dei ghiacci e delle tenebre (22)

Prosegue...

Nell'eterna fuga (24)

...Della bellezza della (vera) Natura (25)














Ora hanno un pazzo a bordo!

Alexander Klotz resterà impietrito per intere settimane. Talvolta, quando le spinte glaciali dell’inverno li colpiscono, quando i malati di scorbuto gemono nella febbre e una tormenta di ghiaccio ricorda loro la fine dei tempi, essi giungeranno a invidiare il cacciatore che è così assorto in se stesso e sembra non riconoscere più nulla della loro realtà. Eppure quest’inverno sarà meno impetuoso e crudele del precedente.

Qui, vicino a terra, al riparo della loro terra, le spinte glaciali sono meno violente, il vuoto non è così immenso e inoltre essi sono sorretti dalla speranza di esplorare la terra nella prossima primavera per poi tornare a casa e, se dovesse essere, torneranno anche a piedi marciando sul ghiaccio. Torneranno, anche se ora diciannove di loro recano i segni dello scorbuto.




Marciare marcire morire resistere pregare parlare giammai recitare solo unire ciò che rimane dal passo inquieto dimenticato… i venti ululano spargano sangue spargano urla disperate membra fratturate come sassi sparsi lungo il cammino… concimano peggio del letame… una baracca ove ripararsi poi proseguire senza capire solo obbedire sperare che l’amico di ieri non sia il nemico di domani pochi anni son passati da quando ci scorgevano entro fienili assaporare la primavera benedire  parlare con la neve ed il ghiaccio ora la mira si fa confusa scorgo solo il lamento della pioggia…

…Vegliare e restare il turno di guardia reclama dovuta mira, al di là un’altro Spirito assorto recita ugual Memoria…

Sì, torneranno queste Anime questi Spiriti questi volti smarriti impietriti più duri del sasso e della neve…

Ricordi che pensiamo morti.

…Li vedo li scorgo ne odo le voci frusciare fra chiome di Alberi inquieti mentre l’agonia del lungo Inverno stenta a cedere ed abdicare il passo smarrito d’un tempo mutato…

Una nuova conquista, una nuova Guerra, un cimitero da difendere, una casa divisa. Una famiglia distrutta. Una Genesi contorta fondare oscuri confini della Storia.

Un Tempo malato senza Memoria s’arrampica conquista la cima non udendo lo strato della crosta volgere come un terremoto mutarne il clima…

Due i Sentieri che lenti si diramano lungo la Via…

…Due i Passi contesi dalla Storia per chi il dono dello Spirito resuscitarne la Memoria.

Ravvivarne la linfa come una eterna Primavera… scorgerne i pensieri soffocati d’un futuro destino più duro del ferro…

‘Mutare il Destino!’, reclama forte un ramo contorto, mentre un canto, un inno alla gioia recita antica preghiera.

…Un Lupo mi fa compagnia in questa strana predica…

Due i Sentieri lungo questa Via…

Odo i ricordi, odo i fucili, rimembro i confini mutare le Stagioni d’un futuro boato al rumore sordo d’un cannone soffocare e sommergere i flutti d’un torrente che sgorga da vene colme di vita, non s’ode la sua preghiera…

Un fucile tacita il Ricordo lo Spirito risorto, il suo inquieto assurdo rumore penetra le vene, il sangue lento scorre come e più del torrente.

Precipita a valle per colmare e fondare la Vita…

Ma il ricordare confonde le menti: risolute conquistano la vetta al motto d’una nuova antica dottrina…   

Difendere i confini.

Gente che fugge.

Trincee scavate lungo il monte, ululati di Lupi, lingue taciute nel silenzio rotto da un lampo neppure un fulmine solo acciaio brillare e tingere il giorno così come la notte.

La guerra ferisce ogni monte e collina ove un tempo si beveva buon vino ora sgorga un fiume di sangue…

Avanzare e ritritarsi….

…E il Tempo consuma ciò che rimane…  




All’epoca mi ero già così familiarizzato con i diari di Mazzini, che questa macchia di vino rosso mi catapultò su un lastrone di ghiaccio: Mazzini aveva descritto gli orsi polari cacciati dall’elicottero con fucili anestetizzati. È un movimento inimitabile, quasi aggraziato, quello con il quale questi animali si rizzano, allungano il muso verso l’alto fiutando qualcosa (poi... talvolta nonostante l'enorme ‘mole’ corrono a perdifiato sul ghiaccio...). L’elicottero si avvicina e allora accade ciò che nell’Artico non accade quasi mai: gli orsi si danno alla fuga, si allontanano trottando, sempre più veloci; infine non è più un trotto, ma una corsa elastica e possente.

Le bestie superano le ampie crepe che solcano le placche, attraversano i  canali a nuoto e mutano improvvisamente e inaspettatamente direzione.

Ma poi l’elicottero è sopra di loro, vengono colpiti dalle frecce e la corsa si trasforma in un malfermo barcollio. Infine giacciono sul ghiaccio; lontani tra loro. Sono tre. Viene loro strappato un dente dalla bocca. Una macchia di sangue stilla sul ghiaccio accanto al cranio. Con una pinza si applica loro un marchio metallico all’orecchio, un sottile rivolo rosso cola lungo la pelliccia sulla quale viene infine spruzzato anche un grande contrassegno colorato. Così si potranno seguire i percorsi degli orsi per centinaia di chilometri di ghiaccio. La macchia di sangue, sulla quale si formano rapidamente cristalli di ghiaccio, impallidisce.

(Anche a questa macchia si riallaccia un ricordo: nel corso della sua avventura, l’equipaggio della ‘Admiral Tegetthoff’ abbatté 67 orsi polari, con fucili Lefaucheaux e carabine Werndl. I cadaveri venivano smembrati con scuri e seghe da ghiaccio sempre secondo il medesimo schema: il cervello agli ufficiali, la lingua a Kepes, medico della spedizione, il cuore a Orasch, il cuoco, il sangue ai malati di scorbuto... l’arrosto di polmoni e le cosce alla mensa comune, il cranio, la spina dorsale e le costole ai cani da slitta, la pelliccia in un barile e il fegato... ai rifiuti...).

Nell’oscurità cominciò a nevicare...




Siamo peggio di ciò che cacciamo.

Siamo peggio di ciò che pensiamo nutrirci.

Siamo peggio del ghiaccio e della neve.

Siamo peggio della tormenta che gonfia il torrente.

Siamo peggio di questi ululati disperati: odono il domani affacciarsi all’oscuro presente.

Siamo peggio dei latrati rubati alle urla soffocate divenire tormento per ciò che nella piazza viene difeso come cani aggirarsi con musi segnati dall’odio…

Non sono ululati neppure latrati rette parole udite con orrore, abbiamo salutato ciò che rimane della loro ‘Compagnia’, ad ognuno abbiamo stretto le mani e neppure fatto il segnale convenuto digitato alla parabola di turno solo una parola per la trama della storia giacché ora sono il tirolese: saluto ognuno!

Addio amici futuri camerati e compagni, mi dissolvo nel vento evaporo lento fino ad una nuvola precipito da quella come un Dio cavalco il Fiume risalgo il Torrente rosso sangue l’Elemento si sposa e congiunge con il ghiaccio e la neve precipito a valle muovo una turbina la Terra mi ispira semino il fiore ne odo il profumo appassito la Stagione muta non recita Poesia ravviva il ricordo lento procedo lento non penso tornato dalla guerra diverrò più duro della pietra del ferro e non certo per forgiare la strana loro armatura la stretta feritoia ove un tempo prendevamo la mira rima nuovi ricordi il viso scuro come e più del carbone qualcuno mi addita come una bestia malata del proprio dolore di vita dura per questa nuova cima per questo Sentiero fin dentro l’antica grotta scavata nelle viscere della Memoria… Tre centesimi e una crosta di pane neppure il sale per la minestra ed il futuro che avanza e marcia a passo d’una nuova guerra…. Sì lascerò anche questa miniera dovrò fuggire disertare salutare ognuno lontano s’odono di nuovo i fucili come fuggire dal sentiero come fuggire questo passo come dar linfa ad una nuova primavera che non sia una Storia già vista e nata morta…?!

Addio amici compagni futuri camerati…


(C. Ransmayr, Gli orrori dei ghiacci e delle tenebre; accompagnato dal coro di voci, Sinfonia 1/2) )
















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