giuliano

martedì 28 dicembre 2021

LA CONQUISTA (5/18)

 










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Dell'ascensione della Vergine  (4/17)  &  [5]


Prosegue con la...:


Terra trasformata  (6)


& al Sant'Elia  (7)


& Con i fiumi che... (8/9) 









Dissacrare valenti coraggiosi impavidi esploratori, non certo ad immagine di Ulisse, non dovrebbe far parte dell’indole del buon ‘uomo’ evoluto dato dall’accrescimento del mito approdato al senso antropologico del ‘simbolo archetipico’ della perenne conquista, così come la vita, dettata dai rigidi canoni della sopravvivenza di un certo universale istinto, di cui l’uomo ne sembra la ‘summa’.

 

Giacché si dica sussiste differenza nel dogma della conquista riflessa nel vasto mondo della sopravvivenza.

 

Certamente sopravvive il più forte e capace in simmetrica conquista dettata però dai principi regolatori nel motivo psico-fisico dell’imprescindibile legame con la Terra conquistata o da conquistare. Ovvero regna distinguo fra un indigeno, sia questo un eschimese o un pigmeo, ed un uomo del tutto civilizzato ma quantunque estraneo agli usi e costumi compresi gli avversi climi, con i quali deve confrontarsi convivere, e di conseguenza, - anche momentanea nella breve o lunga durata della conquista - adattarsi, e quindi sopravvivere. 




La genetica psico-fisica in tal proposito ci insegna qualcosa di non trascurabile, ma sicuramente rilevante al fine della sopravvivenza dell’adattamento nella mutabilità data dalla summa dei fattori esposti ai nuovi esterni, i quali anche se conosciuti e ben calcolati, nelle nuove latitudini divise fra diverse albe e tramonti, creano una barriera psicologica e fisiologica notevole fra l’improvvisato, anche se ben organizzato, conquistatore o viaggiatore, e l’abitante del luogo.

 

Rasmussen il noto antropologo da madre eskimese ci insegna qualcosa in tal proposito.

 

Tutto ciò detto facente parte del ‘dogma’ di cui parleremo in seguito.

 

Semmai l’intento nel dissacrare l’inutile dubbia conquista verso la difficile polarità di un Elemento, e non in conformità con lo stesso, il quale per sua Natura rappresenta o dovrebbe, l’evoluzione istintuale dell’Universo data da una precedente conquista della ‘materia’ in cui la polarità come gravità rappresentano fenomeni fisici con cui riconosciamo il miracolo della vita, riflessa nell’altrettanto indubbia conquista della propria evoluzione corrisposta ai ‘rigidi climi’ dell’uomo.




Taluni popoli nativi sono riusciti in questa difficile convivenza nella reciproca adattabilità in cui l’uomo, il selvaggio, l’animista, il pagano, si è inchinato e piegato sino nello Spirito più remoto e profondo, divenuto oracolo e Sciamano connesso con la sua amata Natura. Mai violata, neppure del tutto conquistata sottomessa o violentata, semmai udita e amata così come l’intera voce della Terra interpretata da diversi opposti archetipi con cui coniata la civilizzata civiltà, nell’impropria o propria moneta restituita e coniata. Ovvero, questa moneta l’inutile sterco della terra neppure capace di concimare la più piccola porzione d’una predata zolla di Terra.      

 

Dacché rovesciando la ‘prospettiva’ evidenziamo quanto sia difficile per tutta la Natura, specchio dell’Universo di cui un probabile Dio indiscusso Architetto, conquistare il freddo asettico impervio cuore dell’uomo. Seppur impareggiabile nella propria velata o boreale scenografia con cui si cura e mostra, nello specchio del gelido sudato affranto volto dell’uomo, che pur non vedendo l’ammira, ovvero non scorgendo il volto della Beatrice (Gaia Terra), in procinto della vera conquista, dispiega Pensiero e Parola nella polarità d’un remoto silente silenzio, ispirare l’amore confuso nel riflesso d’un freddo gelido sentimento, simile al fragore dell’Universo, ogni qual volta muta, cinge il nuovo abito di scena qual scettro del Dominio del proprio violato Regno, specchiarsi nel gelido affranto volto dell’uomo sopraffatto dal gelido tormento della strofa finale, fra dolore e piacere, estasi e tormento, rimpianto e amore, circa la lotta della ‘possessione’ divenuta ossessione conforme alla venuta.




Chi posseduto, e chi al contrario, principio della conquista, in questo specchio rovesciato circa la prospettiva, ove l’uomo in genere freddo più del ghiaccio, duro più dell’oceano solcato, inerme e impenetrabile.     

 

La Natura di certo a stento riesce a conquistare il gelido amore dell’essere approdato alle proprie magnetiche latitudini quali veli d’un remoto Tempo apparentemente naufragato come stratificato, da quel gelo si sprigionerà fuoco circa l’indole della Natura scritta nella evoluta volontà della perfezione di cui si cinge ed orna; ma il gelido polare viandante, freddo più del suo freddo respiro, gelido nell’ingordo intento contare l’esercizio del sessuato esercizio, accompagnato da acrobatici artifizi, di cui la Beatrice conquistata digiuna nella propria lunatica natura.

 

Il freddo e gelido polare essere, il quale si riconosce dall’alito inferocito e appestato colmo di sulfureo fumo, annebbiato dall’ulcerata vista, a stento viene conquistato dalla più sobria umile Beatrice, la quale nulla potrà mai contro l’impossibile fredda indole dell’uomo, al massimo la potrà possedere nei brevi intermittenti istintuali ‘atti’ senza amore e sentimento, con cui la precoce inattesa ‘venuta’ sarà coronata nell’impossibilità della consapevolezza di possederla, padrona dell’immutata quanto impareggiabile primordiale assoluta bellezza.




Solo fugaci deliranti scatti, consumati da un remoto riparo ad una grotta, ove le gesta dell’amore divenuto sessuato atto senza calore. L’uomo freddo più del ghiaccio, con cui Lei lo guarda e adora nella tormenta d’una bufera qual bacio d’una carezza, lo ammira e desidera la tormenta si fa di nuovo bufera, nell’improbabile impresa consumata.

 

Frammentati bipolari monocromatici colori rimarranno qual muti testimoni dell’amplesso con cui la Natura tentò l’amore verso il gelido freddo uomo, hora tormentato dall’impotenza dell’èstasi della conquista senza venuta alcuna.

 

La Conquista non sarà mai consumata colpa, seppur la grande potenza, dell’impotenza con cui la differenza nella misura della corsa, dalla velata frastagliata costa d’una immobile lunga gamba dura e soda come una roccia antica, il quale uomo intravede e sogna. Poi più su fino al bianco seno, ove il gelido essere l’accarezza in vogliosa tentazione dell’acclamato trofeo per i geni della conseguente futura prole. Purtroppo, seppur l’immane sforzo, la palpitante Beatrice mai saprà conquistare l’amore del prescelto corteggiatore o paladino, freddo e impotente di fronte a così tanta troppa eterna immacolata bellezza, sciogliersi in un ultimo scomposto gelido frammento d’una summa di frammentate parole, muto al riparo della tenda cogitando l’impotenza dell’amore!     




Dacché l’ultima rappresentazione esposta di suddetta conquista, ovvero quella di Andée, rievoca un prometeico fallico intento, per l’appunto, non del tutto consumato seppur preservato in fallo, nel motivo dello stesso così sfarzosamente annunziato. Che la preservata sicurezza non abbia nutrito la certezza, semmai deluso la Conquista, questo fuor di dubbio circa la dedotta impotenza, seppur celebrata con sfarzosa magnificenza, così come si è soliti rappresentare ogni scelto paladino dai tempi d’un èvo antico.

 

L’unica ascensione celebrata dell’inviolata immacolata Vergine, in cui il navigato paladino precipitato e non più elevato nei dogmi dell’ascensione che la contraddistingue, o ancor meglio naufragato, sarà dedotta dalla casta impotenza in cui il digiuno dello spirito conforme alla materia, ne farà un eroe della futura sessuata violenza, in nome dell’economica dottrina per ogni successiva conquista esposta ai nuovi sulfurei elementi da cui trarre e dedurre l’equazione della potenza da chi impotente per propria natura.




La Vergine sarà violentata dall’impotente di turno, e la potenza di Lei sarà cibo e dottrina d’ogni titano della Terra.   

 

Con cui l’intera vicenda sarà esposta, o corrisposta nei trasfigurati rigidi dogmi storici, eclissati e abdicati alla anamorfica vendetta delle successive conquiste, dove la nostra Beatrice sarà violata e sfregiata della magnifica bellezza ove nuda si mostra, senza riserva alcuna circa l’amore con cui solitamente vien edificata la conquista del gelido freddo uomo, solo adamitica primordiale discendenza, mai (per l’appunto) conquistata o presieduta nella prospettiva della Ragione con cui la Natura giammai riuscita nell’intento di esaudirla, o ancor meglio appagarla, nella limitata consumata veloce impotenza umana, divenuta dottrina Economica sottratta all’amore con cui ogni Beatrice adornata della sua elevata bellezza, giammai amata, solo violentata dall’impotenza divenuta forza!        

 

Da questo ‘patto’ mai per il vero consumato nel celebrato matrimonio, appare solo una fredda gelida disturbata pugna data dall’impotenza. Scellerato peccato di ogni regno umano dal quale è derivato il Fine ultimo del prezioso commercio pugnato (dato dal costante andamento masturbatorio), o corsa all’età dell’oro, quando questa, in verità e per il vero, da tempo tramontata, e se ancora in vita, per unanime principio evolutivo consumato in ugual medesima pugna, comunque scritto nella falsa limitata ragione del progresso da cui nulla nato, giacché ben sappiamo che nel pugnare nulla vien seminato, contraddistinto come coltivato con la più spietata ed ingorda ferocia del disturbato atto.     



  

Così, seppur il dramma, sia di Andrée come di Scott, assumono univoche tinte erotiche quanto eroiche, io per mia Natura affine, tanto alla neve e al gelo, quanto agli dèi prima, ad un solo dio dopo (concernenti le simmetriche Stagioni offerte in dono all’ultimo uomo), che così bella l’ha creata, pura vergine ed immacolata, dissacro e ricompongo l’intera Scena, l’intera tragedia rappresentata fors’anche mai ammirata, seppure da tutti pianta e applaudita come annunziata così come identica copiata e replicata. Consumata alla cieca vista degli scomposti frammentati atti, assoggettati e testimoniati dai tanti padri e dèi prima, e il Figlio dopo, circa la violentata profanata figlia, da cui la gelida natura umana inscenata e giammai conquistata.    

 

Nel tradurre i termini sacri e dissacrati di tutti coloro, i quali, converrebbe anche il Mazzotti, edificano le proprie ed altrui ‘formule’ del dominio, continuamente rinnovate e portate al beneficio dell’incolta massa, quale record accompagnato da una nuova via, ovvero dallo spigolo sino al baratro del precipizio, in cui si inabissa e naufraga l’intera avventura umana; rimembro a me stesso meco, o all’altrui intento, seppur mi contrasta con o senza Ragione, che l’uomo da quando nato (così come ogni essere che l’ha preceduto) procede accompagnato da siffatta indole nell’istinto della conquista (disgiunta dall’evoluzione), altrimenti saremmo al pari, o peggio e al di sotto, da ciò da cui evoluti. Replico (meco a me stesso) ciò che avvenuto, anche se alcuni dicono al fine del beneficio, avrebbe dovuto migliorare le successive stratificazioni dell’uomo.




Ovvero dall’atto sessuato si sarebbe dovuti procedere verso una Metafisica dell’èstetica pura!

 

Così come si addice ad ogni asceta vero amante della Natura….

 

Ovvero dall’amore più o meno consumato nella forza come nel desiderio di bellezza, sarebbero dovuti nascere del pargoli, dei piccoli dèi avversi ai titani. Invece forza e impotenza evolvere l’intera tragedia consumata dall’incolta stirpe dei titanici intenti della violentata conquista. Come tutto ciò sia potuto e accade ancora rimane scritto nel regno della pugnata violenza affine all’economia della libera licenza del corpo con cui Gaia viene prostituita. La Vergine dunque afflitta dal morbo d’un’istinto del tutto ‘umano’ mai desiderato, nell’amore accompagnato dal Destino più profondo e naturale con cui solitamente ogni Beatrice viene rimembrata come amata.




Ovvero, seppur vero come una bibbia che le rotte commerciali (con tutto ciò che procede e va alla deriva) cercavano - così come tutt’hora - bramando una nuova via più breve della prima, per rendere il viaggio e la conquista economicamente più propizia e sicura, da questo mitologico e materiale istinto d’evirazione dell’amato desiderio divenuto cieco istinto, nascerà un fedele eunuco, sicuro compagno di ogni bianca veglia annunziata nel regno della segreta terra, per mille più una notte in offerta & in omaggio con lo schiavo della stiva, desiderato anche lui nell’immane fatica della mancata impotente conquista, con cui si è soliti distinguere in vita l’amore da una vasta ammucchiata affine alla stessa, nell’apocalisse delle successive progenie in attesa della definitiva disfatta della vera orgia - oppure - dottrina economica.

 

I porti colmi di suddette innominate orge per mille e una notte in offerta!

 

I fuochi sulfurei accompagnati da culti dionisici vengono propiziati da celebranti di perenni culti fallaci, ed ove il pozzo della dea orfica viene rinnovato nel mitologico antico ‘patto’, così come impone la segreta dottrina, d’ogni  barile al greggio della ‘disciplinata-disciplina’ variare la promessa così come il prezzo della stessa nella celebrata previsione per tutti i celebranti della vita. Ed ove viene portato in perenne processione il dio della terra, senza più Madre né figli, solo distillati Titani rivenduti e ridistribuiti immolare un fumo lieve elevarsi dal prometeico campo, ove si scorge da lontano il monte in fallo, rivolto al perenne culto dei celebranti in salita così come articolata inarticolata discesa distinta nello stile dell’accento…

 

Il gigante titano ogni tanto vince la coppa promessa!




E rimembra gli antichi tempi del graal, quando si andava alla Foresta della Selva abbattuta fino all’ultima  miniera scavata nella dura roccia, giostrare la vigilata libertà per ogni spada forgiata - in nome e per conto - della pugnata civiltà S.P.A. a responsabilità limitata…  

 

I mercanti uniti e congiunti ai mercenari della pugna rimembrano l’agognata conquista celebrata fino all’ultima botte della grande tavola imbandita più quadra che tonda!  

 

Questione di partita doppia!   

 

Credo però, sembra in Ragione di ugual motivo saturo di innestate merci falliche ancorate ai porti del domani, che forse l’uomo dovrebbe imparare i sani rapporti e principi regolatori nei quali disconosciamo l’inutile dominio della violentata Natura, nel saper appunto, gestire il bene o l’amore con cui si è soliti convivere nell’armonia così come l’unione che ne deriva, e di cui Lei veramente abbisogna per la necessaria conquista dettata dalla passione, e non certo dall’impotenza mascherata dalla falsa potenza esercitata senza alcun arbitrio circa la Vita di cui Lei ci ha fatto dono per conto dell’afflitto disconosciuto Padre.




In quanto ultimo secondo dato dal cronometro senza più barometro solo un termometro per misurare la nuova febbre dell’oro giallo, la regola dell’indomita conquista sprovvista del principio di Natura, il benessere dovuto dato dalla formula dell’eroe in procinto dell’atto divenuto epica tragedia, sembra restituire repliche allo stesso palcoscenico.

 

Quindi seppur il morbo impone la corsa, credo che il banchiere, ogni banchiere del Tempo da cui l’eterna giostra, così pregata, non abbia ben compreso il principio su cui poggia l’intera Architettura, se fosse vero il contrario, non assisteremmo inermi allo sfacelo dell’intera Natura (e non solo umana), accompagnata dal morbo del Secolo ogni Secolo narrato come conservato immutato.




Ed anche se queste parole, solo vani ‘pittogrammi’ derisi dall’intero popolo assiso nella grotta, il quale applaude, sia l’avventura in nome e per conto del progresso, non meno della successiva celebrata conquista, replicate negli ‘atti’ della Storia per ogni teatro; ben poco comprende la Commedia o Satira di cui doppiamente oggetto. Ed anche se applaude e talvolta piange commosso, poco o nulla ha compreso della doppiezza inscenata divenuta farsa. In quanto non certo l’evoluta conquista vien ‘replicata’, semmai recitata la maschera della stessa eterna ‘replica’; e censurata, di conseguenza, la vera vana pretesa interpretativa della dedotta conflittuale velata celata tragedia, che lo specchio impone, quale vera immagine riflessa dell’uomo che si ammira nel palcoscenico dell’immutata Storia.




La maschera impone gli sfarzosi ornamenti di scena i quali, l’effetto del progresso dato, così come annunziato dal ciclopico fotografico oculo, in sostituzione della più nobile e defunta arte, ovvero tutto ciò a cui l’occhio specchio della corrotta anima, illumina e prefigura nel falso istinto dedotto dalla retina nell’impropria forma della ricchezza derivata come posseduta, subordinata alla Natura mai conquistata solo assoggettata, mai amata solo spiata dall’ingordo desiderio di farla propria.

 

O meglio, potremmo anche a Ragione sostenere in compagnia della bella Beatrice, violentata dalla pugnata umana impotenza da cui ogni conquista divenuta commedia, o se preferite, farsa, la quale farsa divenuta tragedia assume tutti gli accenti della disturbata univoca deviata caratteriale patologia, distinta dall’evoluzione data dal reciproco amore, con cui si è soliti formare una famiglia, e da questa una dinastia regale nata dal consumato amore dall’unione di coppia.




Lei nuda in trepida attesa di sfamare la sua sete per ogni Fiume, di appagare la sua fame, di riscaldare i suoi sonni così come Albe e Tramonti, in procinto di farsi ammirare in ogni Stagione come il più prezioso fiocco e fiore esposto ai rigori del gelo, così come in primavera ove nato un nuovo frutto, nel simmetrico disegno della Forma, delle linee, della universale crescita nella costante bellezza, o anche del contrastato rancore, con cui evolve il proprio ed altrui pensiero, il profilo, il volto, lo spirito sino alle più elevate Cime della simmetrica conquista, talvolta scritta anche nell’ira con cui si è soliti distinguere le Stagioni dell’amore per l’opera; Anima-Mundi la quale parla una lingua difficile posta nella gravità dell’Elemento, posta e coniugata in simmetrico cammino verso l’evoluzione dell’unione, e giammai dettata dal risentimento, con cui e per cui si contraddistingue l’uomo da Lei nato.

 

Dalla violenza così come dall’incesto non potranno che nascere ed evolvere tutti i titani della Terra.







domenica 26 dicembre 2021

SPERO (2)

 










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Spero  (1)


Prosegue con...:


il Capitolo quasi completo  [3]


Seguito dall'ascensione della Vergine  (4)







Il Sole tramontava più piccolo di quanto siamo soliti a vederlo; fremiti armoniosi sconosciuti alla Terra scorrevano per l’aria, e insetti grandi come uccelli si aggiravano e volteggiavano su alberi senza foglie, coperti di giganteschi fiori rossi. Io mi levai scattando dalla meraviglia a guisa di una molla d’acciaio, e in modo sì energico da trovarmi d’un subito in piedi, sentendomi d’una singolare leggerezza. Avevo appena fatti alcuni passi che più della metà del peso del mio corpo parvemi fosse evaporata durante il sonno; e questa sensazione intima mi colpì ancora più profondamente della metamorfosi della natura che si stendeva davanti a miei occhi.

 

Già le stelle più scintillanti si accendevano negli spazi celesti, e vi si riconoscevano Arturo dai raggi d’oro, Vega, così bianca e pura, i sette astri del settentrione, e molte costellazioni zodiacali. La stella della sera, il nuovo Espero, mandava i suoi raggi allora nella costellazione dei Pesci. Dopo aver studiato per alcuni istanti la sua  posizione nel cielo, ed essermi orientato io stesso dietro la scorta delle costellazioni, dopo aver esaminato i due satelliti e riflettuto sulla leggerezza del mio peso, non tardai a farmi convinto che io mi trovavo sul pianeta Marte e che quella vaghissima stella della sera era... la Terra.




I miei occhi s’arrestarono su di essa, impregnati di quel melanconico sentimento d’amore che stringe le fibre del nostro cuore allorché il nostro pensiero trasvola verso un essere prediletto da cui ci separa una crudele distanza, e contemplai a lungo quella patria in cui tanti sentimenti diversi si avvicendano e si urtano nelle fluttuazioni della vita, e pensai:

 

Com’è deplorevole che gli innumerevoli esseri umani che abitano in quel piccolo globo non sappiano ove sono! Essa è pur bella, questa minuscola Terra, così rischiarata dal Sole, colla sua luna più microscopica ancora che sembra un punto a fianco d’essa! Portata nell’invisibile dalle leggi divine dell’attrazione, atomo errante nell’immensa armonia dei cieli, essa occupa il proprio posto e si libra nelle regioni aeree come un’isola angelica, ma i suoi abitanti lo ignorano.

 

Singolare Umanità!

 

Essa ha trovato la terra troppo vasta, s’è divisa in gruppi, e passa il suo tempo a combattere, uccidendosi gli uni gli altri come se nulla fosse. Vi sono in quest’isola celeste altrettanti soldati quanti abitanti! Essi sono tutti armati gli uni contro gli altri, mentre sarebbe stata cosa sì semplice il vivere tranquillamente, e trovano glorioso il cangiare di tratto in tratto i nomi dei paesi e il colore dei vessilli.




È questa l’occupazione favorita delle nazioni e la prima educazione dei cittadini: e da ciò in fuori impiegano la loro esistenza ad adorare la materia. Essi non apprezzano il valore intellettuale, rimangono indifferenti ai più meravigliosi problemi della creazione e vivono senza scopo.

 

Peccato davvero!

 

Ah! S’essi potessero vedere la Terra da qui, con qual piacere vi ritornerebbero e quanto ne andrebbero trasformate tutte le loro idee generali e particolari! Conoscerebbero essi almeno il paese che abitano, e sarebbe già un buon principio: studierebbero progressivamente le realtà sublimi che li circondano invece di vegetare sotto una nebbia senza confini, e vivrebbero bentosto della vera vita, della vita intellettuale!

 

Quali onori gli rende! Si direbbe davvero ch’egli abbia lasciato più d’un amico in quel bagno da forzati laggiù!




 Io non avevo parlato punto, ma udii assai distintamente quella frase che sembrava rispondere alla mia conversazione interiore.

 

Due abitanti di Marte mi stavano guardando, e mi avevano compreso in virtù di quel sesto senso di percezione magnetica di cui si è detto più sopra. Io fui alcun poco sorpreso, e, lo confesserò dunque, piuttosto ferito dell’apostrofe:

 

‘Dopo tutto, pensai io, amo la Terra; è il mio paese ed ho una certa dose di patriottismo!’

 

I miei vicini risero questa volta tutti e due insieme.

 

Sicuro – riprese l’un d’essi con una bontà inattesa – voi avete del patriottismo, e si vede bene che voi venite dalla Terra.

 

E il più anziano aggiunse:

 

Lasciate dunque laggiù i vostri compatrioti! Essi non saranno mai né più intelligenti né meno ciechi d’oggidì. Sono ben ottantamila anni che si trovano a quel punto. E, l’avete confessato voi stesso, non sono ancora capaci di pensare!...

 

Voi siete veramente ammirabile nel guardare la Terra con occhi così inteneriti, ma via, c’è in ciò soverchia ingenuità!




Non vi siete mai, lettori, incontrati talvolta con qualcuno di quegli uomini tutti invasi d’un imperturbabile orgoglio e che si credono sinceramente e in modo irremovibile al disopra di tutto il resto del mondo?

 

Allorché questi fieri personaggi si trovano in faccia a una persona di merito superiore, essa riesce loro esternamente odiosa, e non ne sopportano la presenza.

 

 Ebbene!

 

Durante il ditirambo che precede (e di cui non venne data poco fa che una pallida traduzione), io mi sentivo assai superiore all’umanità terrestre dopo di che prendevo a commiserarla ed invocavo per essa giorni migliori.

 

Ma allorché quei due abitanti di Marte sembravano commiserarmi alla loro volta, ed io credetti riconoscere in essi una fredda superiorità a mio riguardo, fui per un istante uno di quegli inetti orgogliosi, e pur contenendomi per certo resto di garbatezza, aprii la bocca per dir loro:

 

‘Dopo tutto, signori, gli abitanti della Terra non sono così stupidi quanto voi sembrate crederlo e valgono forse assai meglio di voi’.




Sgraziatamente, essi non mi lasciarono nemmeno incominciare la mia frase, poiché l’avevano indovinata mentre si formava per mezzo della vibrazione del midollo del mio cervello.

 

Permettetemi innanzi tutto di dirvi fin d’ora,

 

fece il più giovane,

 

che il vostro pianeta è assolutamente deficiente, per effetto di una circostanza che data da una decina di milioni d’anni. Era nel tempo del periodo primario della genesi terrestre. Vi erano già piante e piante ammirabili in gran numero, e nel fondo dei mari come sulle rive apparivano i primi animali, i molluschi senza testa, sordi, muti e sprovvisti di sesso.

 

È noto che la respirazione basta agli alberi pel loro integrale nutrimento e che le querce più robuste e i cedri più giganteschi del soggiorno terrestre non hanno mai nulla mangiato, ciò che non tolse loro di farsi grandi e vigorosi, – nutrendosi essi per mezzo della loro respirazione.




Disgrazia e fatalità vollero che un primo mollusco avesse il corpo attraversato da una goccia di acqua più densa dell’ambiente in cui viveva, e forse ciò riuscì di suo genio. Fu l’origine del primo tubo digestivo, che doveva esercitare un’azione sì funesta sull’animalità tutta quanta, e più tardi sulla stessa umanità.

 

Il primo assassino fu il mollusco che ebbe a mangiare.

 

Qui non si mangia, non si è mai mangiato, né si mangerà mai. La creazione vi si è svolta gradatamente, pacificamente, nobilmente com’essa aveva incominciato. Gli organismi si nutrono, o come si dice altrimenti rinnovano le loro molecole per mezzo di una semplice respirazione, come lo fanno i vostri alberi terrestri, ogni foglia dei quali è un piccolo stomaco.

 

Nella vostra cara patria, voi non potete vivere un sol giorno se non uccidendo. Fra di voi la legge della vita è legge di morte; qui invece non è mai venuto a nessuno l’idea di uccidere neppure un uccelletto.

 

Voi siete tutti, dal più al meno, veri macellai.




Avete le braccia piene di sangue e i vostri stomachi sono rimpinzati di cibo. In qual modo volete voi che, con organismi così grossolani quali i vostri, possiate avere idee sane, pure, elevate – e dirò anche (vogliate perdonare la mia franchezza) idee pulite?

 

Quali anime potrebbero abitare corpi consimili?

 

Riflettete dunque, un istante, e non cullatevi più di cieche illusioni troppo ideali per un tal mondo!

 

‘Come!’

 

– scattai io interrompendo –

 

‘ci rifiutate voi dunque la possibilità di avere idee pulite, e prendete forse gli esseri umani per animali? Omero, Platone, Fidia, Seneca, Virgilio, Dante, Colombo, Bacone, Galileo, Pascal, Leonardo, Raffaello, Mozart, Beethoven, non hanno essi mai avuto alcuna aspirazione elevata?

 

Voi trovate i nostri corpi rozzi e disaggradevoli, ma se aveste visto passare a voi davanti Elena, Frine, Aspasia, Saffo, Cleopatra, Lucrezia Borgia, Agnese Sorel, Diana di Poitiers, Margherita di Valois, la Borghese, la Tallien, la Récamier e le sue meravigliose rivali, pensereste forse in modo differente.




Ah! caro Marziano, permettetemi alla mia volta di rimpiangere che non conosciate la Terra che assai da lunge’. 

 

V’ingannate; io ho abitato cinquant’anni in quel mondo; ciò mi è bastato, e non vi farò certo ritorno. Tutto vi è mal riuscito, perfino... quel che vi sembra più seducente.

 

Vi immaginate voi dunque che su tutte le Terre del Cielo, i fiori diano vita ai frutti nello stesso modo?

 

Non sarebbe cosa un po’ crudele?

 

Quanto a me, amo le margherite e le rose in bocciolo.

 

‘Ma’

 

 – ripresi io –

 

‘vi furono nondimeno, e contro ogni malvolere, grandi intelligenze sulla Terra e creature veramente sorprendenti. Non è lecito forse cullarsi nella speranza che la bellezza fisica e morale andrà perfezionandosi sempre più, come fece sin qui, e che le menti umane si faranno progressivamente sempre migliori?




Non si passa tutto il tempo della vita intenti a mangiare, e gli uomini finiranno pure, nonostante i loro lavori materiali, per consacrare ogni giorno alcune ore allo sviluppo della loro intelligenza. Allora, senza dubbio, non continueranno più a fabbricare piccoli dèi a loro immagine, e fors’anche sopprimeranno essi le loro puerili frontiere per lasciar regnare l’armonia e la fraternità’.

 

No, amico mio, giacché se lo volessero, essi lo farebbero già fin d’ora.

 

Ora essi se ne guardano bene!

 

L’uomo terrestre è un animaletto che da una parte non prova più il bisogno di pensare, non avendo neppure l’indipendenza dell’anima, e che, d’altra parte, ama battersi e fonda netto e schietto il diritto sulla forza.

 

Tale è il suo buon piacere, e tale è la sua natura.




Non farete mai che una fronda di biancospino abbia a portare pesche. Pensate dunque che le più vaghe ed incantevoli bellezze terrestri a cui faceste allusione testé, non sono che mostri grossolani a petto delle nostre aeree donne di Marte che vivono dell’aria delle nostre primavere, dei profumi dei nostri fiori, e sono sì voluttuose, nel solo fremito delle loro ali, nel bacio ideale d’una bocca che non mangiò mai, che se la Beatrice di Dante fosse stata di tale natura, non mai l’immortale fiorentino avrebbe potuto scrivere due cantiche della sua Divina Commedia: egli avrebbe incominciato il suo poema dal Paradiso e non ne sarebbe mai disceso.

 

Pensate dunque che i nostri adolescenti hanno altrettanta scienza innata quanto Pitagora, Archimede, Euclide, Keplero, Newton, Laplace e Darwin dopo tutti i loro laboriosi studi; i nostri dodici sensi ci mettono in comunicazione diretta coll’universo; noi sentiamo di qui, a cento milioni di leghe, l’attrazione di Giove che passa e vediamo ad occhio nudo gli anelli di Saturno: indoviniamo l’approssimarsi d’una cometa e il nostro corpo è impregnato dell’elettricità solare che mette in vibrazione tutta la natura.




Non vi sono mai stati qui né fantasmi religiosi, né carnefici, né martiri, né divisioni internazionali, né guerre; ma, fin dai suoi primi tempi, l’umanità, naturalmente pacifica e affrancata da ogni bisogno materiale, ha vissuto indipendente di corpo e di mente, in una costante attività intellettuale, elevandosi senza tregua nella cognizione della Verità.

 

Ma venite piuttosto fin qui.

 

Io feci alcuni passi coi miei interlocutori sulle cime della montagna, e giungendo in vista dell’altro versante, scorsi una moltitudine di luci dai diversi colori che danzavano vagamente nell’aria.

 

Erano gli abitanti che, nelle ore di notte, divengono, quando lo aggradiscano, luminosi.

 

Carri aerei, che parevano formati di fiori fosforescenti, traevano seco orchestre e cori, e venendo uno d’essi a passarci vicino, vi prendemmo posto in mezzo ad una nube di profumi. Le sensazioni ch’io provavo erano in modo singolare estranee a tutte quelle da me gustate sulla Terra, e quella prima notte su Marte passò come rapido sogno, in quanto che, all’aurora io mi trovavo ancora nel carro aereo intento a discorrere coi miei interlocutori, coi loro amici e colle loro indefinibili compagne.

 

Quale panorama allo spuntar del Sole!




Fiori, frutti, profumi, palazzi da fate si ergevano sopra isole dalla vegetazione aranciata; le acque si stendevano quali limpidi specchi e gaie coppie aeree discendevano danzando a volo su quelle rive incantatrici. Là, tutti i lavori materiali sono compiuti da macchine e diretti da alcune razze animali perfezionate, la cui intelligenza è press’a poco della stessa natura di quella degli abitanti umani della Terra.

 

Gli abitanti di Marte non vivono che di puro spirito e per lo spirito; il loro sistema nervoso è giunto ad un grado tale che ognuno di quegli esseri, ad un tempo oltremodo delicato e di gran vigoria, sembra un apparecchio elettrico, e che le loro impressioni d’ordine sensitivo, risentite assai più dalle loro anime che non dai loro corpi, sorpassano del centuplo tutte quelle che i nostri cinque sensi terrestri possano mai offrirci...

 

Una specie di palazzo d’estate, illuminato dai raggi del Sole sorgente, s’apriva al disopra della nostra gondola aerea, e la mia vicina, le cui ali fremevano d'impazienza, posò il suo piede delicato su un cespo di fiori che si levava tra due zampilli di profumi.




Ritornerai tu sulla Terra?

 

disse ella tendendomi le braccia?

 

‘Giammai!’

 

gridai io...

 

E mi lanciai verso di essa...

 

Ma, in quel medesimo istante, mi ritrovai solitario, presso il bosco, sul versante della collina ai cui piedi serpeggiava la Senna dai giri tortuosi.

 

Giammai!... ripetei io, cercando di raccogliere il dolce sogno dissipatosi.

 

Dov’ero io dunque?

 

Oh! era pur bello!

 

Il Sole era appena tramontato, e già il pianeta Marte, allora splendidissimo, s’accendeva nel cielo.




Ah!

 

feci io, attraversato quasi da un baleno fugace

 

 io ero là!

 

Cullati dalla medesima attrazione, i due pianeti vicini si guardano attraverso lo spazio trasparente. Non avremmo noi, in questa fraternità celeste, una prima immagine dell’eterno viaggio?

 

La Terra non è più sola nel mondo. I panorami dell’infinito incominciano a dischiudersi, e si soggiorni qui od altrove, noi siamo, non i cittadini d’un paese o di un mondo, ma, per vero, i cittadini del Cielo.

(C. Flammarion)


[Prosegue con il Testamento di Spero, ovvero il capitolo quasi completo]