Precedenti ascensioni....:
con la Sibilla (6/7)
Prosegue con i...:
A tale proposito Quintino Sella
percorrendo le valli dell’Appennino Fabrianese, insieme coi più illustri
componenti della Società Geologica, volgendosi a me, che fungevo da guida, mi
disse: “Si ricordi, lei che è giovane ed alpinista, di andare spesso ad
attingere la calma dell’animo e l’energia al lavoro sulle montagne, ma si
ricordi pure che così facendo, contrae degli obblighi con i suoi monti, che le
danno tanti conforti, e la mantengono in fertile e buona salute”.
Sta questo povero villaggio di montagna, come sperso, in un vasto altipiano, che s’eleva a 925 metri sul mare; per quanto lo sguardo può spaziare all’intorno, non un albero, non un cespuglio, non il verde dei monti dopo le prime piogge d’estate. Con una specie di stupida curiosità domandai ad un gruppo d’uomini che stavano tracannando una bibita più acerba del sidro, che chiamavano vino, dove andassero a prender legna per scaldarsi l’inverno. Un di essi, senza rispondermi, con la mano m’accennò il monte di rimpetto; al che avendo io soggiunto con un atto di meraviglia (perché su quel monte non si vedeva neppure un arbusto), un altro più cortese, mi spiegò come andassero nell’altro versante a fare le provviste pel fuoco.
Ora
è da sapere che da Cupi, per valicare
il monte in parola, c’è da salire almeno 700 metri, e poi da discenderne circa
500 per arrivare ai primi boschi, nei quali, a rigore, quei montanari neppure
avrebbero diritto di andare per legna. E questo, in più o meno tristi
condizioni, è un fatto che si ripete per la maggior parte dei meschini paeselli
di queste montagne.
Ma
come, si domanderà, un tanto e così generale sterminio di boschi in una regione
che doveva esserne fornita a dovizia, che era lontana da centri di consumo e
affatto mancante d’un sistema stradale che avesse potuto permettere una
considerevole esportazione?
È da molto tempo che vastissime selve furono bruciate, per ritrarre, dal terreno rimasto libero dagli alberi secolari, un qualche reddito, non potendone ricavare alcuno dal bosco che era in proporzioni tanto eccedenti i bisogni locali; né io credo che questo fatto, riportato ad epoche abbastanza remote, sia così riprovevole come oggi può sembrare, giacché non si può ammettere che debbano mantenersi in piedi vastissime selve da cui non si ritrae alcun frutto, quando dall’atterramento di esse non si prevedano danni, e se ne sperino anzi sicuri vantaggi.
Però
il male non è qui, ma nel fatto che questo mezzo, non condannabile in tempi
tanto diversi da quelli che corrono, e quando i boschi in realtà coprivano più
degli otto decimi del terreno in montagna, si è proseguito a praticare in
epoche successive, come se fosse unico scopo della civiltà progrediente la
completa distruzione dei boschi. Non manca secondo alcuni qualche ragione a
difesa di questo infame sistema, ma a me sembra, se può usarsi l’espressione, che queste siano ragioni sragionevoli.
Essi dicono, i boschi lontani da strade e da luoghi di consumo, non avevano alcun valore, e l’unico modo di averne un profitto era quello di far sì che l’area da essi occupata divenisse atta alla pastorizia ed alla coltivazione; e proseguono osservando che la comunità se ne avvantaggia pel reddito di nuovi canoni su questi terreni, e che se ne giova l’interesse privato a cui si dà agio ad un più esteso lavoro.
Ma non s’accorgono costoro che tale
ragionamento non vale se non dentro certi limiti, di là dai quali conduce alla
completa rovina dei monti.
Così,
parte per ignoranza, parte per insensata avidità di guadagno, col ferro e col
fuoco, ma più con questo che con quello, furono distrutte le selve delle
pendici più alte dei Sibillini. Nei
boschi che rimasero più in basso, e vicini all’abitato, il taglio saltuario ed
intempestivo, unito al pascolo vago, compirono l’opera, così che,
presentemente, è una vera eccezione se s’incontra, su tutto questo
importantissimo gruppo dell’Appennino centrale, qualche tratto di terreno
coperto d’alberi d’alto fusto. Nei luoghi dove i boschi mancano da lungo tempo,
i popolani credono che non siano mai esistiti, e sorridono ironicamente, a chi
si faccia a dir loro che sarebbe possibile di ricostituirli.
Così avvenne anche a me più d’una volta, ma a Castelluccio trovai uno, che mi ascoltò con grande attenzione, e mostrò convincersi delle mie ragioni al punto, da promettermi, che in via di esperimento, avrebbe sparsi in più di un luogo semi di varie essenze. Dove poi i boschi sono deperiti recentemente, e non mancano del tutto le ceppaie, anche quei montanari credono che possano riprodursi presto, e non osteggiano le disposizioni della legge forestale.
Sembra
un paradosso, ed è un fatto, che la
maggior opposizione all’applicazione delle norme pel mantenimento e miglioramento
dei boschi, venga fatta da persone che appartengono alla più elevata classe
sociale, e che si faccia invocando i diritti della proprietà.
Molteplici
e varie sono le ragioni che si mettono in campo per sostenere questi pretesi
conculcati diritti, ma io trovo che si riducano principalmente a due, cioè il
diretto particolare interesse in alcuni, ed in altri la mania ambiziosa, che li
fa accorrere dovunque c’è da buscarsi a buon mercato la desiata aura di
popolarità. E inutile dire, che al
solito, nell’uno o nell’altro caso, il popolo, a favore del quale si parla, è
quello che, presto o tardi, paga le conseguenze dell’intrigo a cui ha servito
di pretesto, mentre i suoi difensori si sono già, sul momento, rifatti
delle spese.
Invero, o essi riescono ad aver ragione o non vi riescono; nel primo caso, novantanove volte su cento, viene menomata e rimossa una disposizione che sarebbe stata utilissima in epoca non lontana a coloro che vi reclamavano contro; nel secondo caso, facilmente si comprende quanto l’influenza o l’intrigo di persone che abusano del loro nome, e della loro posizione sociale, rechi intoppo agli agenti della legge per la libera applicazione della medesima.
Per
ora sui Monti Sibillini (non
essendosi neppur potuto parlare di sistemazioni di acque e di rimboscamenti) l’unico
mezzo efficace che è stato possibile di effettuare per la protezione dei boschi, è
quello del vincolo. Nel criterio quindi dell’applicazione di esso, si basa tutta l’azione
delle competenti autorità forestali.
Io,
nel visitare questi monti, prendendo i necessari appunti, e facendo all’uopo
ripetute interrogazioni, constatai che il Comitato
Forestale non ha di certo gravato la mano, e che i montanari, al contrario
di quello che ne sbraitano i loro pretesi difensori, già riconoscono i vantaggi
delle provvide disposizione della legge, e, più che sottomettervisi, oramai le
invocano.
Infatti adesso i più, sono convinti, per ripetuti e punto confortevoli esempi, che, qualora alcuni terreni sottoposti al vincolo si fossero per altro tempo concessi al lavoro, in un brevissimo giro di anni sarebbero, per vero dire, perpetuamente vincolati, perché ridotti a nuda roccia. Ma potrebbe osservarsi che, mentre io faccio un gran parlare dei boschi, abbia dimenticato affatto che la produzione maggiore di questi monti si ha dalla pastorizia, e che l’agricoltura, o almeno la produzione del frumento, in alcune valli ed altipiani, ha la sua importanza.
Innanzi
tutto, parmi che farei troppo grave torto ai lettori se mi mettessi a spiegare
la stretta connessione che hanno i pascoli principalmente, e le terre coltivate
in montagna, con il benessere o l’abbandono dei boschi. Non solo negli attuali progetti di rimboscamento predomina tale
criterio, ma i fatti stanno a provare, dovunque rimboscamenti furono eseguiti,
come zone di terreno divenute quasi sterili si ridussero pascoli ubertosi,
quando i boschi furono ricostituiti, mentre al contrario pascoli ubertosissimi
isterilirono quasi, dopo la distruzione dei boschi. Cosicché si viene a questo
che, come un giorno per aumentare la superficie del pascolo furono bruciati i
boschi, ora, per aumentarla di nuovo, bisogna ripiantare i boschi.
Ma,
a parte tutto ciò, che è d’indole universale e notissimo, io farò osservare che
non sarebbe mai giustificata la distruzione dei boschi, che rappresenta un
grande sperpero di capitale, e di quel capitale che meglio di ogni altro è alla
portata delle popolazioni montane.
Poi
non è da illudersi al punto da credere che, se la pastorizia è fonte di
cospicui redditi ad alcuni arricchiti proprietari, e di sufficienti risorse ad
altri, sia veramente origine di prosperità generale. Infatti la pastorizia,
come è adesso organizzata, non dà un
reddito efficace che al proprietario della masseria, mentre i pastori vi campano a stento la vita.
E
si prenda nota che qui dico a stento, non per modo di dire, ma per ver dire!
La
fatica materiale a cui sono soggetti i pastori non è molta, ma la vita che
fanno è tale, da rendere la loro esistenza penosa quant’altra mai, e da
deprimerne innanzi tempo le forze, ed avvilirne il carattere. Nei sei o sette
mesi che passano nelle poco salubri pianure dell’Agro Romano, per unico
ricovero hanno una primitiva capanna, dove dormono in molti, senza mai
spogliarsi, su d’una specie di duri giacigli che chiamano rapazzole; negli
altri mesi, compreso il tempo del viaggio, che è almeno di 12 o 15 giorni all’andata,
e d’altrettanti al ritorno, stanno sempre all’aperto, non avendo altro riparo
dallo intemperie , che le loro pellicce di pelle di capra.
Il cibo, d’estate o d’inverno, in montagna od a maremma è sempre lo stesso; pane, olio, sale, che loro vengono dati dai padroni; il salario annuo, con cui debbono provvedere a vestirsi e a tutti gli altri bisogni non supera in media le lire 150; se volessi completare queste note, dovrei aggiungervi come vengano negati a questi infelici tutti i conforti della famiglia, i benefizi del vivere sociale, e tante altre cose, che dovrebbero non ignorare certi demagoghi non da strapazzo, ma che pensano solo alla plebaglia delle città che li acclama nelle dimostrazioni e nei meeting.
Che
dimostrazione, che meeting farebbero i pastori di Visso, se avessero la piena coscienza del loro stato, del tempo in
cui vivono, lo lascio considerare al lettore benigno. Ma non è di questo che
qui devo e voglio occuparmi; dirò piuttosto che dalla pastorizia, i paesi di
montagna, come Visso, non hanno
neppure certi benefici indiretti, che sembrerebbero inerenti alla medesima,
come per esempio, il commercio e la vendita del formaggio e delle lane. Infatti
le pecore si fondono nelle maremme molto prima della loro partenza per i monti,
ed anche la maggior produzione del formaggio si ha nel tempo che la masseria
soggiorna nell’Agro Romano, essendo ché, pel principio di inverno, le pecore
hanno già tutte partorito e così, quando tornano sui monti, sono già più di sei
mesi che danno latte.
Dell’agricoltura sul gruppo dei Sibillini ho da dire assai poco, restringendosi questa alla coltura del frumento e delle patate, non potendosi tener conto di altre coltivazioni. In alcuni luoghi, che rappresentano nell’insieme tratti considerevolissimi di superficie, il re dei cereali si coltiva in pura perdita; non è così però d’altre e più vaste estensioni, come sugli avvallamenti del Monte Cardosa, sull’altipiano di Cupi, e specialmente sull’ampio e fertile bacino del Castelluccio, dove la produzione sale ad otto e nove ettolitri per ettaro, sebbene a circa 1400 metri sul livello del mare e con lavori assai primitivi.
L’orzo
e le patate danno relativamente un discreto prodotto; il primo per lo più lo
vendono o lo cambiano col granturco, le seconde servono direttamente all’alimentazione.
Ma ì prodotti dell’agricoltura locale non sarebbero certo sufficienti a sfamare
anche miseramente i montanari, se non emigrassero per sei o sette mesi dell’anno,
a procacciarsi da vivere, per lo più nell’Agro Romano.
Però
non credo inopportuno, dopo aver detto alla meglio delle condizioni attuali del
gruppo dei Sibillini, di accennare ad
alcune idee che mi si presentarono alla mente sul luogo.
Quantunque
io non creda che il periodo, per così dire, eroico dell’alpinismo sia finito, perché
molte vette vi sono ancora da conquistare, molte ascensioni da compiere per vie
ancora inesplorate; nondimeno penso che oramai vi sono molti altri modi di
rendersi benemeriti dell’alpinismo, tanto più che parmi di sentirne la parodia,
leggendo certe descrizioni, che ad ogni passo narrano di salite difficili, di
precipizi e pericoli di tutte le specie, e si riferiscono a montagne sulla
vetta delle quali stanno per sei mesi gregge e pastori, e vi si arriva,
volendo, col mulo *.
Apriamo breve grado di parentela…
[*
Infatti
per i tipi dell’Eroica neve, uscirà fra giorni la seconda edizione de La montagna presa in giro di Giuseppe Mazzotti, il quale, in questa
sede, specifichiamo non esser parente del Mazzetti di Milano, cugino del
bresciano; e quindi ciò detto, per gentile concessione di Giuliano, siamo in grado di offrire ai lettori uno dei capitoli del
nuovo lavoro, contenuto nella parte IV Alpinismo acrobatico, ovvero, L’Ascesa dell’Anima! Si tratta di una
satira della moderna tendenza dell’arrampicamento sociale verso l’Anima altrui e
delle varie epiche difficoltà.
La
montagna interessa soltanto per le difficoltà che permette di superare. È tanto
più bella quanto più si avvicina all’estremo limite delle difficoltà, stabilito
con precisione scientifica da moderni poderosi trattati. Esistono tabelle
scalari che appagano i gusti metodici e polverosi dei rigattieri e degli
archivisti d’ogni bellezza e d’ogni emozione. La scienza, catalogando il
catalogabile, vorrebbe fermare, entro formule matematiche, sensazioni
soggettive, quali sono le emozioni del rischio e la valutazione delle
difficoltà, variabili di per sé, e per lo stesso individuo; tanto più quando
entrino in gioco variazioni atmosferiche e particolari condizioni fisiche e
morali dell’arrampicatore. Vi sono scale estere e scale nazionali. Le estere
stanno ottenendo un primato spiegabile solo con la loro severità e precisione,
in evidente contrasto con la più generosa valutazione della difficoltà fatta da
certe scale italiane. Dimodoché è facile che partigiani de l’una o dell’altra
scala, di ritorno da una arrampicata, trovino modo di bisticciare, iniziando
penosi calcoli memonici di analisi infinitesimale, gli uni propendendo per
difficoltà di grado tre e settantacinque, gli altri di grado tre e ottantasette.
Generalmente si mettono d’accordo sulla porta del Rifugio, con un quattro e mezzo che si avvicina al quinto penultimo terribilissimo termine della scala delle difficoltà. L’emozione e la soddisfazione si esprimono con un numero, e sono tanto maggiori quanto più si avvicinano al massimo dei massimi, cioè, al sei, che rappresenta, in parole povere, e se il paragone non è troppo indecoroso il Centro del bersaglio nei baracconi delle fiere.
Certi
autori vanno contro i fondamentali criteri della logica, deformando
arbitrariamente le scale estere brevettate e razionali, senza che nessuno
intervenga a deferire alla pubblica autorità simili inconcepibili abusi.
Bisogna pesar le montagne con la bilancetta del farmacista: ‘salita compresa
fra il quarto grado superiore, e il quinto inferiore’. Gli alpinisti sono
tormentati dagli stessi dubbi che assillano i professori delle Scuole medie,
coscienza e scrupolosità: cinque meno, e sei più.
È inconcepibile che in un periodo destinato a passare alla storia per certe imprese poste all’estremo limite possibile della progressione asintotica dello sport d’arrampicamento, come valori massimi insuperabili di prestazione atletica, si continui a confondere una scalata straordinariamente difficile, con una scalata estremamente difficile. Non è chi non veda a colpo d’occhio la differenza fra difficilissimo, oltremodo difficile estremamente, sommamente ed eccezionalmente difficile: diversità di evidenza palmare. La difficoltà di una ascensione è espressa tra una formula semplicissima: la famosa equazione di Sigmundo Dulfer, variabile fra il primo e il sesto grado, ovvero: D= R/C; essendo, come spiega L’Oracolo dell’annuario L’Anima risorta: D la difficoltà di un determinalo punto; R l’espressione della configurazione rocciosa del punto stesso crescente con la ripidezza, colla scarsità e piccolezza degli appigli. Cioè la difficoltà tecnica pura; C la capacità tecnica dell’arrampicatore.
L’enunciazione
della formula del Sigmundo Dulfer
suscitò una polemiche molto interessanti e contrastanti tra loro e contribuì ad
affrettare la conflagrazione europea, Sigmundo
errava principalmente nel parlare di difficoltà tecnica pura.
Il suo diretto avversario, il celebre Plank, affermando l’esistenza di difficoltà oggettive e soggettive circa l’Anima detta, cadeva in un doppio bestialissimo errore; anzitutto nella formula intervengono alcuni fattori K1, K2, K3, a rendere variabile il concetto di difficoltà. K1 rappresenta la media aritmetica dei gradi d’adesione delle suole delle pedule; la quale media si ottiene dalla somma delle coordinate dei diversi grafici d’usura, relativi alle suole di feltro; panno, tela e miste, prese in esame prima della scalata, e successivamente al passaggio degli appositi controlli, divisa per il numero dei medesimi; K2 la somma dei punti ottenuti dall’esame preventivo dell’impressionabilità, delle condizioni fisiche, di allenamento, psichiche e morali dell’arrampicatore all’iniziò della scalata, e nei momenti successivi, come sopra;, K3 le condizioni degli appigli (se ancora scabri o lucidi mobili, semimobili, o fissi) lo stato dei chiodi e della roccia in generale, in relazione alla umidità, espresse in numeri, e sommate all’integrale delle altezze dei vari punti difficili sul livello del mare, tenuto conto del diverso sforzo occorrente per compiere lo stesso lavoro ad altitudini diverse. Una volta aggiunto il Resto di Lagrange, divisi, per l’angolo formato dell’ipotenusa del triangolo rettangolo di cui un cateto rappresenta la verticale della vetta, linea ideale della goccia d’acqua cadente senza vento, e sviluppato l’integrale, si estrae la radice cubica, e si ottiene finalmente la cercata difficoltà, pura e matematica.
Per quanto non sia verosimile che un procedimento così semplice possa indurre l’alpinista in sensibili errori, tuttavia sarà meglio confrontare il risultato fon con quello ottenuto col metodo sperimentali dall’apposito Difficoltometro, strumento fabbricato a Monaco estradato dalla Baviera, assieme agli analoghi Rocciometri e Capacitometri, evidentemente indispensabili per tradurre in cifre i simboli R e C.
Volendo
trascurare i coefficienti K1, K2, K3, e ad ogni
modo ammettendo la esattezza della definizione enunciata dal Rudatis, che cioè la difficoltà non sia
solo in funzione della capacità, ma esattamente il rapporto tra la natura della
montagna e la capacità dell’individuo, sussiste sempre la fondamentale equazione Duilfer, di cui essa è una espressione più generale: D=R/C da cui potremo ricavare strabilianti
conseguenze.
Moltiplichiamone infatti, come ci consente una regola elementare, ambo i membri per la quantità C supposta reale, positiva e diversa da zero (un arrampicatore con capacità zero non sarebbe un arrampicatore). Il valore dell’equazione non essendo mutato abbiamo: CD = R; la quale eguaglianza significa che se moltiplichiamo una particolare capacità arrampicatoria C (stabilita dal Capacitometro) per una certa difficoltà assoluta e sterilizzata D, otteniamo una speciale conformazione rocciosa R; otteniamo cioè, ad esempio, la parete della Tofana o del Sass Maòr.
(G. Mazzotti)
Chiusa
ai Parentesi….]
A tale proposito Quintino Sella percorrendo le valli dell’Appennino Fabrianese, insieme coi più illustri componenti della Società Geologica, volgendosi a me, che fungevo da guida, mi disse: ‘Si ricordi, lei che è giovane ed alpinista, di andare spesso ad attingere la calma dell’animo e l’energia al lavoro sulle montagne, ma si ricordi pure che così facendo, contrae degli obblighi con i suoi monti, che le danno tanti conforti, e le mantengono in buona salute’.
Quelle
parole io non le ho più dimenticate, e vorrei che le forze ed il tempo non mi
venissero meno, per mostrare quanto profondamente mi stiano scolpite nell’animo.
Quindi è che mi terrò pago anche se le mie osservazioni dovessero giudicarsi di
nessun valore, purché sia riuscito a richiamare l’attenzione de’ miei colleghi
su fatti che devono interessare quanti desiderano il bene delle popolazioni di
montagna, e senza fantastiche illusioni credono che, operando con intelligente
costanza, si possa portare un efficace miglioramento al loro stato presente.
Da qualche tempo, da un capo all’altro d’Italia, si fa un gran parlare di boschi e di rimboscamento, senza che poi, in realtà, siasi fatto un gran che a favore della silvicoltura, e sembra, per tale rispetto, che si viva sotto tutt’altro regime, da quello in cui siamo da parecchi anni oramai. I Monti Sibillini, tra gli altri, ne sono un tristissimo esempio, che dura (nonostante le buone intenzioni del Comitato Forestale di Macerata, e dell’energia indomabile dell’egregio Ispettore Viglietta), e durerà, perché, date certe circostanze, i mezzi che sono in potere dell’autorità, e le disposizioni della legge, non bastano a far sì che deserte piaghe tornino a ricoprirsi di boschi, o poveri cespugliati, e cedui ridotti in miserevolissime condizioni, possano senza ironia riacquistarsene il nome. Nondimeno, se per se stesse le disposizioni ed i mezzi del Governo non bastano a ripristinare i boschi, bisogna riconoscere che favoriscono grandemente l’opera di coloro che vi si danno con intelligenza ed amore.
Nel
territorio di Visso, che comprende la
gran parte della superficie dei monti
della Sibilla suscettibile d’una migliore coltura boschiva, o d’essere
rimboscata a dirittura, la proprietà è generalmente comunale. Ora è certo che,
non foss’altro in via d’esperimento, non dovrebbe essere impossibile d’ottenere
dall’amministrazione di quel Municipio un centinaio d’ettari di terreno per
ripiantarvi il bosco, tanto più se si considera che quel terreno, nello stato
in cui si trova, nulla rende, e nulla, lasciandolo come sta, può promettere di
rendere in avvenire.
Dal lato tecnico l’impresa non sarebbe difficile, né potrebbe costar molto, se si sapesse scegliere per un primo esperimento, fra tante che ve ne sono, una di quelle località che più si prestano, e che darebbe certamente in breve un buon risultato, contribuendo così a scuotere direttamente l’indolenza degli abitanti, i quali malamente credono a chi loro dimostra a parole i tesori di ricchezza che potrebbero trarre dalle loro denudate montagne. Senza dunque voler fare un preventivo, che qui sarebbe fuori di posto, credo di potrei e con ogni serietà asserire, che la spesa relativa sarebbe tenuissima, e che sarebbe facile trovare chi la sopporta.
Il
terreno non costerebbe nulla, la direzione dei lavori e la sorveglianza assai
facilmente potrebbero ottenersi dal Governo, che l’affiderebbe ai suoi agenti
forestali. Dal Ministero d’agricoltura e commercio potrebbero ottenersi semi e
piante a tenuissimo prezzo. L’importo effettivo dovrebbe venir fuori pei lavori
d’impianto, ma questo importo nel caso nostro potrebbe rendersi assai poco
grave, se si riprendesse uno di quei punti ai quali ho accennato, dove,
tracciati appena i fossi di scolo, potrebbesi, con un aratro, muovere
sufficientemente il terreno, per la semina delle essenze. Trascurando poi anche
quei mezzi che l’iniziativa intelligente di chi si mettesse all’opera potrebbe
in vari modi opportunamente escogitare per far fronte a tali spese, il
Municipio stesso e la Provincia potrebbero bastare, tanto più che si rammentano
ancora troppo bene di quanto loro sia costato l’incanalamento del torrente di Ussita di cui ho parlato abbastanza più
sopra.
Intanto
quello che è certo necessario perché l’opera si mandi ad effetto si è, che vi
sia chi tolga a sé di preparare e d’iniziare la nobile impresa, impresa che a
mio parere a nessuno potrebbe meglio convenire, che a qualcuna delle Sezioni
del nostro Club…
[prosegue con il capitolo quasi completo]
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