giuliano

sabato 25 dicembre 2021

IL VIAGGIO DELLA BOREAL (15)

 
























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Gli esploratori erano morti, sembrava, all’improvviso, perché quasi tutti i dodici membri dell’equipaggio apparivano impegnati in qualche attività: Egan stava salendo la scala che portava alle cabine, Lamburn era seduto con le spalle appoggiate alla porta della cabina dove serbavamo gli strumenti di navigazione, apparentemente occupato a pulire due carabine; Odling, infondo alla scala della sala macchine, armeggiava con un paio di komagar di pelle di renna, e Cartwright, che spesso si ubriacava, era rimasto con le braccia congelate intorno al collo di Martin, apparentemente nell'atto di dargli un bacio, tutt’e due distesi accanto all’albero di mezzana.

 

Dappertutto - sugli uomini, sui ponti, sui rotoli di corde - nella cabina, nella sala delle macchine – tra i battenti dei boccaporti - su ogni scaffale, in ogni angolo, si stendeva uno strato di cenere o polvere, sottile, impalpabile, purpurea; e su tutta la nave, come lo spirito stesso della morte, regnava tranquillamente quel profumo di peschi.




E così aveva regnato, come potevo dedurre dalle date del giornale di bordo, dalla ruggine delle macchine, dall’aspetto dei cadaveri, da cento indizi, per più di un anno; ed era stato soltanto il capriccio dei venti e delle correnti a permettere il mio incontro con quella nave mortale.

 

Questa fu per me la prima rivelazione esplicita del fatto che quel Potere (chiunque e qualunque cosa Esso o Essi fossero) che nel corso della storia aveva avuto tanta cura di tenere celata la Sua Mano agli uomini, non aveva, a quanto sembrava, alcuna intenzione di fare niente per celare la Sua Mano a me; perché era infatti come se il Boreal mi fosse stato apertamente offerto da Qualcuno, il quale, per quanto invisibile, facilmente potevo riconoscere.

 

Ehi! Salve! Bravo! Sono arrivato al Polo!




E quei dodici morti che avevo nella cabina degli strumenti mi avranno certamente udito, e mi avranno udito gli uomini della baleniera, e avranno sorriso col loro sorriso.

 

…Mi sentivo vagare incosciente nell’immensità dello spazio, e in questo mondo incorporeo arrivavano a tratti ondate di quel profumo di peschi che ben conoscevo, sempre più frequenti; ma il Boreal proseguiva la sua marcia, varcando per così dire l’Eternità senza fondo; finché non raggiunsi i 72 gradi di latitudine, abbastanza vicino ormai all’Europa del Nord. Quanto all’odore di peschi - anche se c’erano ancora dei borgognoni di ghiaccio intorno - ero adesso come un navigatore fantastico, che essendo partito in cerca dell’Eden e delle Isole Felici, vi è infine arrivato, e le odorose brezze dei loro giardini lo raggiungono da lontano, per dargli il benvenuto coi loro profumi di mandorlo e corniolo, di ‘sciampa...’ e gelsomino e loto.




Infatti ero giunto a una regione dove l’aroma di pesco regnava ovunque, tutto il mondo sembrava impregnato di quel profumo, e avrei potuto pensare che la mia nave stesse avviandosi oltre i confini della terra, verso chissà quale clima di spezie e delizie eterne.

 

C’è qualcuno? C’è qualcuno?!

 

Posso soltanto adesso ricordare che tra tutti i miei urli, una frase dettata dai demoni che si servivano della mia gola per esprimere la loro frenesia mi fece ridere forte, pazzamente, perché gridavo:

 

Ehi! Bravo! Perché non vi fermate? Pazzi!

 

Sono arrivato al Polo!




In quel momento si levò un odore che mi raggiunse, e mi colpì il cervello, un odore esecrabilissimo; il tempo di contare fino a dieci, e mi resi conto, dal rumore crescente delle sue macchine, che la nave si stava accostando; e intanto quel maledetto ossario, nella sua corsa da menade, già mi passava accanto, facendo schiumeggiare il mare a meno di venti metri dal mio naso.

 

Era una cosa, santo cielo, dalla quale perfino un avvoltoio si sarebbe allontanato con ribrezzo; riuscii soltanto a gettare uno sguardo sui suoi ponti, pieni zeppi di cadaveri in putrefazione. Con la coda dell’occhio scorsi la parola Yaroslav, nera sulla poppa gialla, mentre mi chinavo sulla ringhiera a recere e tossire e vomitare: era una cosa orrenda.

 

Perciò credo che tra cinquant’anni le forze della Terra si scateneranno definitivamente, in folle scompiglio, e che questo pianeta si annovererà tra le palestre indiscusse dell’Inferno, e assisterà a sconvolgimenti immensi almeno quanto quelli osservati sul pianeta Giove.




La lotta della Sofferenza con i pionieri della Conquista assume i connotati dell’Apocalisse, del Sogno, dell’incubo.

 

Della più limpida Visione!

 

Della Follia!

 

Il nuovo Secolo appena iniziato, oppure al contrario, sull’orlo dell’Abisso dell’estinzione odor di pesco in fiore, celebrata o naufragata nell’incenso dell’incestuoso atto della violata ‘materia’, seppur qualcuno (e Nessuno) immaterialmente ne difende e rimembra l’Opera dell’antico mito trasfigurato.

 

Un bambino nella grotta degli dèi rimembra la Sacra Scienza profanata.

 

Un ugual medesimo bambino viene cercato e incoronato, i sacerdoti custodi del violato Segreto cercano l’Anima e lo Spirito di nuovo incarnato per rinnovare l’Infinito patto. La frattura della Terra elevarsi, protendere come un dio verso il limpido cielo coronare simmetrico Elemento, meditare vendetta. Cinge l’usurpata corona, per donarne una nuova. Il profilo, il volto del vero Dio, là ove molti, fors’anche troppi, smarrirono - pur trovandola - la chiodata pretesa divenuta violata Cima, coniata nella materia, della vana e più folle inutile conquista, divenuta Teschio del progresso.

 

Ne hanno usurpato l’antica Corona!

 

Osserva cos’è divenuta!

 

Le schiere dei figli di Prometeo - divenuti Titani - ne hanno smarrito ogni ricordo divino. La lotta prosegue l’invisibile incompreso cammino. Adamo penitente ubbidisce alla Principio del Padre, mentre il Figlio muore in nome della sua Legge.    

 

La vana pretesa di conquistare e comprendere ogni Elemento, mentre il Dio ne celebra ogni violato Segreto!

 

Un vento lieve si eleva…

 

Per divenire Boreale Tempesta…




La Terra è tutta sul mio cervello, sul mio cervello, o Madre dagli oscuri disegni! coi tuoi potenti desideri, i tuoi pentimenti, le tue fredde sofferenze, e sopori comatosi, e disastri venturi, o Madre! e io, povero uomo, benché monarca, testimone del dramma dei tuoi dolori tremendi.

 

A lei penso tutto il tempo, senza sosta, penso e penso; e quest’abitudine, credo, acquistò in me consistenza e fatalità nel corso di quel viaggio in Oriente: perché quale sarà il suo fato, soltanto Dio lo sa, e nelle mie meditazioni mi è capitato di vedere certe visioni del suo destino futuro, così impressionanti che, se qualcuno dovesse con i suoi sensi carnali vederle realizzate, alzerebbe le braccia e si metterebbe a girare e girare come una trottola nei labirinti di una frenesia follemente ghignante, perché già la visione in sé è l’orlo della vertigine.

 

Se potessi smettere almeno per un’ora di pensare a lei, alla Terra!




Ma sono suo figlio, e la mia mente si protende e si protende verso di lei come i rami avventizi del ficus indiano, che scendono verso la terra per radicarvisi, e lei lo succhia e l’attira, così come la sua gravità attira il mio piede, e non posso sfuggirla, perché è più grande di me, e non c’è modo di sfuggirla; e così alla fine, lo so, la mia anima si precipiterà da sola verso la rovina, come gli uccelli erranti contro le lanterne dei fari, nel suo seno selvatico e potente.

 

Mi capita di passare intere notti senza chiudere occhio, ossessionato da quel Golfo del Messico, dalla sua concavità, com’è identica alla protuberanza dell’Africa dirimpetto, e come la protuberanza del Brasile combacia con la concavità dell’Africa: al punto che per me è ovvio — ovvio — che in altri tempi i due continenti furono uno solo, e una notte pudicamente si divisero e si allontanarono; e di questo il folle Atlantico era consapevole, e accorse beatamente, in fretta, a inserirsi tra di loro; e come se ci fosse stato lì un occhio in grado di vedere, e un orecchio per udire quella Tua oratoria solitaria…




Tu, o Tu!… e se adesso di nuovo si riaccostano, così a lungo divorziati… ma su quella strada non troverò che la pazzia furiosa.

 

Eppure non si può non pensarci: perché essa riempie la mia anima, e l’assorbe, con tutti i suoi umori e i suoi capricci.

 

La Terra ha intenzioni, segreti, piani…

 

Strano quel gemellaggio geografico tra l’Europa e l’Asia: ciascuna con tre penisole meridionali, tre paia di gemelle; Spagna, Arabia; Italia-Sicilia, India-Ceylon; la Morea e la Grecia spaccate dal golfo di Corinto, la penisola malese e l’Indocina spaccate dal golfo del Siam; ciascuna con due penisole settentrionali che puntano a sud: Svezia e Norvegia, Corea e Kamciatka; ciascuna con due isole gemelle: la Gran Bretagna, il Giappone; il Vecchio Mondo e quello Nuovo hanno ciascuno una penisola che punta a nord: Danimarca, Yucatán, e la Danimarca è un dito indice dall’unghia lunga, lo Yucatán un pollice che indica il Polo.

 

Che vorrà dire, lei?




Non sarà lei stessa un’entità vivente, con la sua volontà e il suo destino, come i marinai dicevano delle navi?

 

E quella cosa che girava e girava nell’Artico, seguiterà ancora a girare, lassù, con lo stesso ardore oscuro? Strano che i vulcani si trovino tutti vicino al mare: non so perché.

 

Questo fatto, abbinato al fenomeno delle esplosioni sottomarine, veniva di solito sbandierato a sostegno della teoria chimica dei vulcani, la quale presupponeva l’infiltrazione delle acque del mare negli antri contenenti i materiali che servono da combustibile alle eruzioni; ma solo il cielo sa se questo è vero.




I vulcani elevati sono intermittenti: un secolo, tre, dieci, di tranquilla attesa, e a un tratto la loro oratoria metteva per sempre a tacere un’intera povera regione; quelli più bassi sono permanenti; e a volte formano un sistema lineare continuo, costituito da orifizi di scappamento, come i camini di una fonderia sotterranea.

 

Chi può conoscere i suoi segreti?

 

Nelle montagne, una serie di picchi rivela la presenza di dolomiti; le vette tonde significano rocce calcaree; quelle a forma di ago, scisti cristallini: ma perché? Io la conosco un poco fino a una profondità di dieci miglia, ma se più in fondo — per ben ottomila miglia — sia tutta fiamma o pallini di piombo, dura o morbida, non lo so, non lo so.




I suoi metodi per fabbricare carbone, geyser e sorgenti sulfuree, e i gioielli, gli atolli e le scogliere coralline; le rocce di origine sedimentaria, come lo gneiss; le rocce plutoniche, prodotto della fusione, e la breccia che costituisce la base della crosta; e i raccolti, la fiamma dei fiori, e il passaggio dal vegetale all’animale: non li conosco, ma sono suoi, e sono come me, fusi nella stessa fornace del suo cuore scarlatto.

 

Essa è oscura e capricciosa, improvvisa e sciagurata, e lacera i suoi piccoli come una gatta cannibale; ed è vecchia e profonda, e si rammenta di Ur dei Caldei che Uruk eresse, e del primo segno di vita dell’ameba, e ricorda quel tempio di Bel, e porta ancora come fosse cosa di ieri la vecchia Persepoli e la tomba di Ciro, i ruderi di Haran e quei templi vihârah scolpiti nella pietra dell’Himalaia; e di ritorno dall’Estremo Oriente, mi soffermai a Ismailia, e andai al Cairo, vidi quel che rimaneva di Menfi, e meditai una notte davanti a quella piramide e a quella sfinge muta, seduto sopra una tomba, finché pietose lacrime non mi bagnarono le guance: perché l’uomo trapassa.




In quei sepolcri nella roccia ci sono colonne notevolmente simili ai pilastri del mio palazzo, solo che quelle sono rotonde, e i miei pilastri sono quadrati, ma hanno la stessa fascia sotto il capitello, e sopra, il fiore di loto chiuso e il plinto che sorregge l’architrave; i miei pilastri, però, non hanno architrave.

 

I sepolcri consistono di una corte esterna, poi c’è un pozzo, e dentro un’altra camera per i morti; e non me ne andai finché la fame non mi costrinse: perché sempre più la terra mi invade, mi adesca, mi assimila; e alle volte mi domando:

 

‘Non mi succederà forse, tra qualche anno, di cessare di essere un uomo, per diventare invece una piccola Terra, una sua copia: misterioso e terribile, metà demoniaco, metà ferino, interamente mistico — bisbetico e turbolento — capriccioso, pazzo, triste… come lei?’

 

(Shiel)  

  

[e il capitolo quasi completo]








 

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