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Della Stella (12)
Prosegue con la Boreal (14/5)
La Stella Polare salpò da
Christiania il 12 giugno 1899,
salutata dalle sirene dei battelli ancorati nella rada e fece rotta per il Mar
Bianco. Il 30 giugno gli uomini a bordo della Stella Polare avvistarono i primi blocchi sparsi di ghiaccio
galleggiante mentre si avvicinavano al porto di Arcangelo, dove li attendeva il mercante russo Trontheim a cui erano stati
commissionati i cani per le slitte.
I
centoventuno cani erano stati trasportati dalla Siberia e avevano sofferto per
il viaggio: erano così macilenti da dubitare che potessero riuscire a smuovere
una slitta, men che meno trascinarla al Polo Nord. Il Duca era costernato: per la cifra pattuita di 708 sterline inglesi
gli sembravano un pessimo affare. Non c’era però alcuna alternativa: poiché
occorrevano i cani e non c’era modo di procurarsene altri bisognava pagare e
caricarli sulla nave.
Mentre
gli uomini della Stella Polare
costruivano le gabbie da sistemare in due file sovrapposte lungo le fiancate
della nave, i cani litigavano continuamente tra di loro e non smettevano mai di
abbaiare. Il viaggio vero e proprio non era ancora cominciato e già si
annunciava turbolento.
Mentre si prolungava la sosta ad Arcangelo, fu una bella sorpresa ricevere una delegazione di italiani, capeggiata dal conte Oldofredi, giunta da Mosca con regali da parte della regina Margherita e delle duchesse Elena e Letizia d’Aosta. Ci furono altre visite: l’ambasciatore italiano e persino il granduca Vladimiro, fratello dello zar, di passaggio ad Arcangelo.
Il
12 luglio finalmente, caricati i cani riottosi, la Stella Polare lasciò il
porto di Arcangelo per l’Oceano Artico, diretta all’arcipelago di Francesco
Giuseppe.
Il
Duca non sapeva che altre tre spedizioni erano partite quello stesso mese,
dirette al Polo Nord: una condotta da Robert Edwin Peary dalla Terra di Grant,
un’altra del norvegese Otto Sverdrup, il capitano della Fram di Nansen, dalla
Groenlandia, e una terza dell’americano Walter Wellman dall’arcipelago di
Francesco Giuseppe.
La Stella Polare raggiunse
l’arcipelago senza particolari difficoltà e si diresse a Capo Flora sull’isola
Northbrook per lasciare un deposito di viveri e materiali per eventuali
emergenze. A Capo Flora il Duca e i suoi compagni visitarono le capanne
lasciate dalla spedizione Jackson, dove trovarono un messaggio del comandante
della nave Capella per Wellman.
Ripresa la navigazione, la Stella Polare sperimentò le prime difficoltà di navigazione in acque polari. L’entrata del Canale Britannico era ostruita dai ghiacci e la nave dovette tornare verso sud per aggirare l’arcipelago da ovest, solo per scoprire che anche da quel lato il passaggio era sbarrato da lastroni di ghiaccio di 2 metri di spessore. Incominciò una lotta faticosa col ghiaccio che impediva di avanzare e che serrava la nave da tutti i lati. Preso tra ghiaccio e corrente, lo scafo scricchiolava, la nave beccheggiava e si inclinava. Rimaneva bloccata, non si poteva più muovere. Si tentava allora di aprire un varco tra i ghiacci con una carica di esplosivo, ma era un rimedio illusorio, poiché i ghiacci si chiudevano di nuovo attorno alla nave per poi riaprirsi misteriosamente, senza alcuna ragione apparente, per qualche centinaio di metri e rinserrarsi di nuovo.
Curioso paese annotava il Duca nel suo libro,
‘dove continuamente si passa dalla
speranza alla delusione, dalla delusione alla speranza!’
E
aggiungeva:
‘Non era che il principio delle mie
prove. Pazienza e perseveranza furono due virtù continuamente esercitate in
questo viaggio’.
Perseverando con pazienza, la Stella Polare si fece strada lentamente verso nord. Il 5 agosto, grande fu la sorpresa di tutti nell’avvistare una nave. Era la Capella di Wellman che rientrava dopo il fallimento dell’impresa. Avevano perso quasi tutti i cani e le slitte e Wellman si era spezzato una gamba cadendo in un crepaccio. Rientrava tristemente, ma diede al Duca una buona notizia: verso nord il mare era libero dai ghiacci. Dopo il breve incontro tra i due equipaggi e un brindisi augurale, le due navi si separarono, allontanandosi in direzioni opposte. Per molti mesi gli uomini del Duca non avrebbero più incontrato altri esseri umani.
La Stella Polare continuò la
sua rotta nel mare libero, avvolta da una fitta nebbia. Appena vi fu una
schiarita, Cagni scese sul ghiaccio a
effettuare una misurazione della latitudine. Era di 82º4’, più a nord di quella
raggiunta da Payer, ma non si vedevano terre a settentrione e il Duca decise
di ripiegare a sud vero la Terra del Principe Rodolfo e gettò l’ancora nella
Baia di Teplitz, non lontano da Capo Fligely, in un’insenatura tra due capi
rocciosi sporgenti, con una piccola spiaggia pianeggiante, a 80º47’.
Sembrava un posto abbastanza protetto per mettere la nave al riparo dalla pressione dei ghiacci che in inverno si sarebbero formati sul mare e avrebbero premuto contro le pareti rocciose dell’isola, schiantandosi. Molti dei disastri nell’Artico erano stati provocati, in passato, dal ghiaccio del pack che aveva distrutto le navi lasciando gli uomini senza riparo e senza provviste a morire di fame e di freddo. La piccola baia protetta da alte pareti rocciose offriva un rifugio rassicurante. Le acque della baia erano coperte da una grande lastra di ghiaccio in cui si apriva un canale attraverso il quale la Stella Polare si portò vicino alla riva.
Subito
gli uomini si misero al lavoro sulla spiaggia per costruire delle capanne per
il deposito di viveri e materiali e i canili, per evitare di reimbarcare ogni
sera i cani lasciati liberi di giorno. Iniziarono anche a effettuare le
misurazioni e le osservazioni scientifiche e le raccolte di campioni di flora e
di minerali.
Alla fine di agosto i primi freddi cominciarono a farsi sentire e a formare ghiaccio nuovo. La notte del 7 settembre l’equipaggio venne risvegliato da rumori sinistri come non si erano mai uditi. La brezza, che si era levata di notte, nel primo mattino si era rinfrescata e, cambiata direzione, aveva spinto i ghiacci del largo contro quelli della baia. Agli scricchiolii facevano seguito rumori sordi da ogni parte della nave che si muoveva e sbandava.
Gli
uomini accorsi sul ponte guardarono con orrore i lastroni di ghiaccio
accumulati contro la riva e contro i fianchi della nave. All’improvviso la nave
si sollevò completamente sul ghiaccio e rimase inclinata sulla sinistra di
almeno 20 gradi, con la prua completamente emersa. Col sartiame in bando, il
fasciame del fianco destro danneggiato e una falla aperta, la nave sembrava
perduta. Per ventiquattro ore di seguito tutti si adoperarono senza sosta a
sbarcare tutto il materiale che ancora si trovava a bordo e a pompare l’acqua
perché non raggiungesse i forni delle caldaie, che sarebbero scoppiati a
contatto con l’acqua gelata.
Alla fine la nave dovette essere abbandonata. L’inclinazione era tale da non permettere di vivere a bordo, e fu una delusione, dopo tanta cura per trasformare la nave in una confortevole abitazione per l’inverno, rassegnarsi ad accamparsi a terra. Con le tele portate per coprire il ponte della nave durante l’inverno e le vele della nave, venne costruito un capannone a triplice parete, con tavole di legno per pavimento. Le due tende destinate alla spedizione vera e propria vennero montate all’interno e il complesso finì col risultare abbastanza accogliente. Era un po’ precario ma bene isolato e anche in inverno, con le stufe spente di notte, la temperatura non scese mai sotto lo zero.
Raggiunta
la baia di Teplitz, la notte del 7 settembre, la Stella Polare, compressa dai lastroni del pack, si sollevò sul
ghiaccio e rimase inclinata sulla sinistra con la prua completamente emersa, il
fasciame del fianco destro danneggiato e una falla aperta.
La Stella Polare, sempre inclinata su un lato, sembrava dovesse inabissarsi da un momento all’altro, ma resisteva. La falla era rimasta otturata dal ghiaccio e non entrava più acqua. Naturalmente l’acqua all’interno si era trasformata in ghiaccio, ma almeno per il momento non c’era pericolo che la nave affondasse. Un’ispezione rivelò danni al fasciame e anche alla struttura interna della nave. Forse anche le macchine erano danneggiate e il Duca temé che la nave fosse irrecuperabile. Sarebbe stata una tragedia: avrebbe significato rimanere bloccati, isolati per mesi o per anni come già era successo a tante sventurate spedizioni.
Ma
Cagni non si diede per vinto.
Tra
le sue molte qualità c’era la passione per la meccanica e con l’aiuto di
Petigax, abilissimo carpentiere, riuscì a porre rimedio a guasti e a danni.
Occorsero poi gli sforzi di tutti gli uomini per rimuovere il ghiaccio che si
era accumulato nelle stive e nel locale delle macchine e mettere la nave in
condizione di ripartire quando la missione polare fosse stata compiuta.
Fu un lungo, interminabile inverno, nonostante non ci fosse mai tempo per annoiarsi. Gli uomini si alzavano alle sette del mattino, facevano colazione alle otto e cominciavano a lavorare sodo alle nove. Dopo una giornata di lavoro intenso, si ritrovavano nella parte comune del tendone per cenare. Al Duca la routine sembrava simile a quella della scuola militare, dove la mancanza di privacy rende gli uomini taciturni e timorosi di rompere il fragile equilibrio di una convivenza coatta.
Avevano
portato molti libri, ma non avanzava mai il tempo per leggerli. Di giorno gli
uomini lavoravano a temperature di−30º nel debole chiarore dell’autunno artico,
e di sera, prima di coricarsi, avevano sempre qualche riparazione da fare
all’interno degli alloggiamenti, o qualche miglioria da apportare.
Il 4 novembre si abbatté sull’accampamento una tempesta che imperversò per nove giorni, scuotendo tende e sostegni senza tregua. Gli uomini non poterono far altro che stare seduti al coperto a guardare il barometro con la speranza che il vento cessasse. Ma il vento continuava a soffiare e urlare e quando tacque, il decimo giorno, e gli uomini uscirono dal loro rifugio, trovarono solo buio e silenzio. Era iniziata la lunga notte dell’inverno artico. Da quel momento bisognò lavorare alla luce delle lampade anche di giorno.
A
metà novembre i lavori urgenti erano terminati e la nave completamente
sgomberata era in grado di essere riattivata in estate, quando i ghiacci
sarebbero tornati a sciogliersi.
Il
20 novembre fu un piacevole diversivo festeggiare il compleanno della regina
Margherita con un giorno di riposo. Il Duca distribuì una parte dei regali
recapitati ad Arcangelo dal conte Oldofredi. Annotò nel suo diario:
‘S.M. la regina aveva destinato ai
marinai catene d’argento e agli ufficiali oggetti diversi. Ogni oggetto portava
il nome della persona a cui doveva essere dato: attenzione molto delicata e che
mi permetteva di far lieti i compagni con questi ricordi dell’Italia lontana’.
Sollevati dai lavori più pressanti e dal timore che la nave affondasse, gli uomini poterono finalmente dedicarsi allo scopo per il quale erano partiti: la spedizione al Polo. Per quanto lo permettessero la temperatura sotto zero e l’oscurità, cominciarono ad allenare i cani e a compiere brevi escursioni con le slitte al lume delle lanterne.
Due
giorni prima di Natale, il Duca e Cagni uscirono come di solito con le slitte e
un piccolo gruppo di uomini e si diressero verso il fondo della baia. La
temperatura si era alzata a−2º, i cani correvano e le slitte scivolavano veloci
sulla neve.
C’era
foschia e il Duca distingueva a stento la lanterna di Petigax che marciava
davanti alla comitiva. Dopo un’ora e mezza di marcia, Cagni, che era sulla
slitta di testa, si fermò per permettere alle altre slitte di raggiungerlo.
Proprio in quel momento si alzò un vento gelido che coprì di neve polverosa
come sabbia tutte le tracce. Per timore di perdersi, Cagni ordinò che le slitte
tornassero indietro e cercassero di ritrovare la direzione da cui erano venuti.
Contava sull’istinto dei cani, ma si accorse che nemmeno loro erano in grado di
ritrovare le tracce. Allora il Duca e Petigax scesero dalle slitte e si
incamminarono davanti alla carovana, cercando di orientarsi, senza rendersi
conto che non erano più sul ghiaccio della baia, ma sul ghiacciaio dell’isola,
che scendeva con una forte pendenza e terminava bruscamente con un salto sopra
la baia.
Se ne accorsero all’ultimo momento e gridarono per fermare le altre slitte, ma i cani, attirati dalla lanterna di Petigax, si misero a correre scivolando lungo la ripida discesa. Le mute di due slitte, su una delle quali si trovava Cagni, travolsero il Duca e precipitarono con lui dal bordo del ghiacciaio sul fondo della baia, con un volo di otto metri. Petigax e gli altri – che erano riusciti a fermare le slitte all’ultimo momento – accorsero ad aiutare il Duca e Cagni, fortunatamente incolumi, a districarsi. Solo un cane era ferito e dovettero abbandonarlo, assieme alle due slitte ormai inservibili.
Si
rimisero in marcia senza essere sicuri della direzione da prendere, con il
vento che soffiava forte e spegneva continuamente le lanterne. Per fortuna vi
fu una schiarita brevissima, e in quel breve spazio di tempo il Duca e Cagni
poterono riconoscere una stella su cui si orientarono, dirigendo la marcia
verso l’accampamento. In breve udirono in lontananza il rintocco di una
campanella: erano i compagni rimasti al campo che la suonavano per aiutarli a
ritrovare il cammino.
Il Duca si accorse ben presto che era successo qualcosa di grave alle sue mani. Dopo la caduta, aveva tolto i guanti per pochi istanti, e ora si rendeva conto che le dita della mano sinistra erano rimaste danneggiate.
Il Natale trascorse
allegramente: il cuoco preparò un dolce speciale e vennero distribuiti i regali
che erano stati tenuti da parte per l’occasione. Il Duca però non riuscì a
preparare personalmente l’albero di Natale come avrebbe voluto: le sue dita non
rispondevano e le fitte si facevano sempre più dolorose. Si trattava di un
congelamento serio.
A
Capodanno gli uomini spararono razzi per festeggiare l’anno nuovo, che era
anche l’inizio di un nuovo secolo. Il Duca presenziò alla festa il minimo
indispensabile, e anche i giorni successivi si fece vedere poco. Nonostante le
cure del dottor Molinelli, le dita stavano andando in cancrena. Il 18 gennaio
il dottore dovette amputare quasi tutta la prima falange del dito medio e dieci
giorni più tardi una parte dell’anulare.
Il 29 gennaio, giorno del suo ventisettesimo compleanno, il Duca passò ufficialmente il comando della spedizione a Umberto Cagni, ‘a malincuore ma comprendendone la necessità’ come scrisse, ‘sicuro che togliendomi di mezzo da quell’impresa ne aumentavo la probabilità di riuscita che la mia presenza, in caso di ricaduta, avrebbe interamente compromessa’.
Anche
le dita di Cagni si erano congelate, ma non gravemente, e stavano guarendo.
Benché nulla trasparisse dal suo contegno, dovette essere una grande delusione
per l’orgoglioso principe rinunciare alla sperata prestigiosa conquista del
Polo Nord.
Per
giunta era umiliante non riuscire nemmeno a vestirsi senza aiuto.
(M. Tenderini)
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