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Il duca degli Abruzzi aveva
studiato attentamente le relazioni di Guillarmod. Le difficoltà incontrate
dalla spedizione Eckenstein lo convinsero dell’opportunità di portare con sé
una squadra numerosa di montanari valdostani. Joseph Petigax e suo figlio
Laurent erano già stati in Karakorum con i Workman, nell’area del Chogo Lungma.
Anche i fratelli Alexis e Henri Brocherel avevano avuto esperienze himalayane
in due spedizioni guidate dal dottor Longstaff: un tentativo al Nanda Devi e la
famosa salita al Trisul. Alle quattro guide, il Duca aggiunse tre portatori, anch’essi valdostani: Emile Brocherel,
Albert Savoie ed Ernest Bareux.
Gli
altri alpinisti erano, col Duca, Federico Negrotto (suo secondo in comando, al
posto di Cagni), Filippo de Filippi, Vittorio Sella ed Erminio Botta: un
piccolo gruppo di persone affiatate, capaci di scalare montagne, di compiere
rilevamenti scientifici e di convivere per un lungo periodo in condizioni
disagevoli.
Poiché le spedizioni di Conway e di Eckenstein avevano trovato tempo pessimo, e anche i Workman avevano avuto due mesi di bel tempo una volta sola su quattro spedizioni, il Duca decise di cambiare periodo e di tentare la spedizione all’inizio di giugno.
Alla
stazione di Rawalpindi vennero scaricati dal treno centotrentadue colli per un
peso totale di 4752 chilogrammi. Ci vollero parecchi giorni per trasportarli,
per mezzo di carretti a mano o trainati da cavalli, che facevano la spola tra
Rawalpindi e Srinagar, nel distretto del Kashmir. A Srinagar, il Duca si
accordò con un appaltatore britannico, A.C. Baines, perché sovrintendesse al
reclutamento dei portatori lungo tutto l’itinerario di avvicinamento e
provvedesse alla logistica per l’intera spedizione, facendo approntare pasti e
alloggi alle soste. Trasporti e preparativi durarono una settimana, e in quel
periodo il Duca e i suoi compagni furono ospitati da Sir Younghusband, a
quell’epoca residente del Kashmir, e da sua moglie, che, quando tutto fu
pronto, li accompagnarono nella prima tappa del viaggio, fino allo sbocco della
valle del Sind, collegata alla città da fiumi e canali. Fu una partenza
pittoresca: l’intera carovana venne caricata su barche e chiatte, mentre il Duca, i suoi compagni e i loro ospiti
viaggiavano su veloci imbarcazioni a remi e lungo le rive li seguivano cortei
di curiosi che suonavano strumenti, cantavano e applaudivano.
Ebbe inizio quindi la risalita della valle del Sind.
Baines
viaggiava con un giorno o due di anticipo sul resto della carovana e, quando
arrivavano, gli italiani trovavano il tè fumante e gli alloggi pronti. Spesso
erano accolti da dignitari locali che li festeggiavano o semplicemente si
aspettavano dei doni. Il Duca era
consapevole di essere un ospite, con i suoi uomini, in un paese straniero; teneva
molto a che tutto funzionasse senza attriti con la popolazione locale e non
dava mai segno di spazientirsi delle cerimonie che a volte prendevano molto
tempo e rallentavano la marcia. L’8 maggio la spedizione raggiunse l’oasi di
Skardu, circondata di alberi e freschi ruscelli, dove gli italiani poterono
ammirare per la prima volta i giganteschi picchi verso i quali si stavano
dirigendo. Avevano percorso 362 chilometri in undici giorni, e fecero tappa
nell’incantevole villaggio, festeggiati dagli abitanti, dapprima timidi e poi
invadenti e chiassosi. I notabili organizzarono una partita di polo in onore
del Duca e offrirono un banchetto, ma
il piacere maggiore per gli alpinisti fu il ristoro, nel fresco delizioso dei
boschetti di Skardu, dalla calura accumulata nell’arida zona che avevano
attraversato.
Da Skardu proseguirono la marcia alzandosi di quota e impiegarono altri undici giorni per arrivare alle sorgenti calde di Askole, gradevolissime, poiché la temperatura era scesa a −2º. La carovana attraversò quindi il fronte del ghiacciaio del Biafo e giunse ai piedi del Baltoro. Ora la salita si faceva più faticosa, soprattutto per i duecentosessanta portatori appesantiti dai carichi. A Urdukas, a 4025 metri di altezza, trovarono Baines che aveva già predisposto un campo fisso – il campo base – con un deposito di viveri e un altro di materiali e attrezzature. Venne organizzato un osservatorio meteorologico e Vittorio Sella costruì un ometto sull’argine morenico mediano del Baltoro che permise, al ritorno, di rilevare uno spostamento del ghiacciaio di ben 110 metri in sessantadue giorni.
In questo campo base, Baines si sarebbe fermato per rifornire la spedizione di viveri freschi – latte, carne e pollame – per mezzo di portatori che avrebbero fatto la spola. Nella spedizione di Eckenstein, i portatori avevano esaurito tutti i viveri prima di giungere alla base del K2: bisognava evitare che si ripetesse un’evenienza del genere. Fino a questo punto Luigi di Savoia era molto soddisfatto: era andato tutto bene, non si era verificato il minimo incidente e non era andato perso il più piccolo oggetto, circostanza che, in verità, il Duca attribuì più all’onestà dei portatori Balti che all’efficienza dell’organizzazione.
Al campo base, il Duca scelse i dieci portatori più forti che avrebbero accompagnato la spedizione fino ai campi più alti, e altri venticinque per portare le attrezzature fino ai campi intermedi. A tutti fece distribuire abiti pesanti, scarponi, guanti, occhiali da sole e sacchi da bivacco. Lasciò centoquindici portatori a Baines e tutti gli altri vennero congedati con la loro paga e i viveri per il viaggio di ritorno, che molti di loro non si curarono di prendere, tanta era la fretta di correre a casa. Gli italiani seguirono l’itinerario della spedizione Eckenstein-Guillarmond lungo i ghiaioni morenici del Baltoro. Il tempo era buono ma nuvoloso. Il 25 maggio vi fu una schiarita e agli occhi degli alpinisti apparve il gruppo dei Gasherbrum, all’estremità orientale del ghiacciaio. Proseguirono verso nord, e nel mezzo dell’anfiteatro del Concordia – così chiamato da Conway per la sua somiglianza al circo omonimo del ghiacciaio dell’Aletsch, nell’Oberland Bernese –, alla congiunzione dei ghiacciai del Baltoro e Godwin Austen, frugarono con lo sguardo davanti a loro, nel muro di nebbia che si sfaldava in veli sottili, fino a che videro emergere, dall’altra parte della valle, la piramide gigantesca del K2.
Rimasero tutti fermi per un’ora a osservare la montagna che si faceva sempre più visibile a mano a mano che si liberava dai brandelli di nebbia, mentre Sella e il suo assistente preparavano i loro apparecchi per fotografare. Il K2 si elevava d’un solo balzo per più di 3600 metri dalla base alla vetta. Da sud ricordava il Cervino, ma solo nella forma: le dimensioni erano impressionanti. Prima che la montagna sparisse di nuovo nelle nuvole, Sella scattò una fotografia, la prima della storia della montagna. Nel circo Concordia venne posto il secondo campo fisso. Negrotto, De Filippi e Sella si fermarono un giorno, per organizzare gli spostamenti dei portatori, per compiere rilievi topografici e per fare fotografie. Il Duca proseguì verso la montagna e pose il terzo campo alla base dello sperone sud-est. Da lì il gruppo si sarebbe diviso in cordate che avrebbero esplorato la zona per individuare possibili vie di salita che portassero alla vetta.
Le perlustrazioni effettuate il giorno seguente dal Duca e dalle guide non diedero risultati incoraggianti. I pendii orientali della montagna erano troppo difficili e lo sperone nord-est, in parte già percorso da Guillarmond e Wesseley, venne subito scartato. Era ripido, ghiacciato e costantemente spazzato da valanghe. Come unica possibilità rimaneva il costolone roccioso che si elevava direttamente sopra il terzo campo – la via suggerita da Crowley – che portava direttamente dal ghiacciaio alla spalla della montagna. Aveva il vantaggio di ricevere il sole tutto il giorno e sembrava, di tutta la montagna, lo sperone meno esposto alla caduta di valanghe.
Il Duca decise di volgere i tentativi
su quell’itinerario.
Il
primo giorno di bel tempo gli italiani erano pronti ad attaccare la via, ma si
resero subito conto che a causa dell’altezza e della parete sempre più ripida i
carichi dei portatori dovevano essere ridotti. Procedettero a una
ridistribuzione dei carichi e bisognò attrezzare con 100 metri di corde fisse
un canale di neve e ghiaccio. Il 1º giugno, il Duca con i due Petigax e i tre portatori valdostani raggiunsero
sullo sperone un’altezza di 5560 metri e posero il quarto campo. Il Duca e i portatori si fermarono nelle
tende, mentre i Petigax proseguivano, installando corde fisse su un tratto di
roccia ghiacciata e neve, per facilitare il passaggio per il giorno seguente.
Alla sera rientrarono nelle tende e Petigax confessò al Duca i suoi dubbi. Era perplesso, disorientato. I loro progressi
erano stati lenti perché non riuscivano a determinare le distanze che avevano
già percorso e quelle davanti a loro. Sia le guide sia i portatori soffrivano
di illusioni ottiche – allucinazioni: a volte credevano di essere su pendii
facili e si accorgevano all’improvviso di essere invece sulla roccia verticale,
sospesi nel vuoto.
Ma bisognava resistere.
Il
giorno dopo, nonostante il tempo fosse peggiorato, Petigax e suo figlio
tentarono di salire sulla sella. Raggiunto un canale dove avevano fissato le
corde il giorno prima, notarono una fascia di roccia rossastra su una spalla
che portava in direzione della vetta. Era una parete ripida ed esposta, e
pensarono che, anche se l’avessero attrezzata con corde fisse, per i portatori
balti sarebbe stato difficile arrampicarsi su quel tratto verticale. D’altra
parte erano ancora troppo lontano dalla vetta per poter pensare di fare a meno
delle tende, dei viveri e del materiale trasportati dai portatori. Tornarono al
quarto campo e riferirono la situazione al Duca,
che decise di abbandonare il tentativo. Avevano raggiunto un’altezza tra i 6200
e i 6700 metri. Il tempo era sempre brutto.
Ridiscesero
tutti al terzo campo. Continuava a nevicare, ma le provviste di carne, uova e
latte fresco, inviate da Baines risollevarono gli spiriti. Il primo tentativo
era fallito ma la spedizione non era finita, e, appena la neve cessò di cadere,
il Duca diresse un nuovo tentativo su
per un ampio ghiacciaio sul versante ovest del K2 che aveva notato nel corso della sua prima ricognizione. Forse
da lì sarebbe stato possibile raggiungere lo sperone nord-ovest della montagna.
Ancora una volta furono ingannati dall’apparente facilità del percorso. Il ghiacciaio era ripido, colmo di crepacci e percorso da valanghe. A quell’altezza, il sole abbagliante e la mancanza di ossigeno rendevano penoso ogni passo e per arrivare alla sella impiegarono molto tempo. Vittorio Sella si fermò a fotografare il piccolo gruppo che saliva su per i muraglioni ripidi di ghiaccio.
Gli
alpinisti continuavano a salire, ma arrivati a un colle a 6666 metri si
accorsero con disappunto di essere tagliati fuori dalle pendici settentrionali
del K2. Il versante opposto del colle
presentava una cresta di neve ripidissima: impossibile affrontarla dopo dodici
ore di faticosa salita. Rientrarono al campo, dopo aver dato al colle e al ghiacciaio il nome di Savoia.
Fino a quel momento la spedizione non aveva mai beneficiato di più di tre giorni consecutivi di bel tempo. Le notti erano gelide; di giorno il vento soffiava neve e schegge di ghiaccio sul viso degli alpinisti, accecandoli. Avevano compiuto due tentativi ed erano stati respinti. Non c’era alcun segno che lasciasse sperare un miglioramento del tempo, e il Duca decise di rinunciare al K2.
Avrebbero esplorato il bacino superiore del ghiacciaio Godwin Austen.
Vittorio Sella si era già
avviato in quella direzione per salire fino a un colle a est del K2 da dove contava di vedere – e di
fotografare – le montagne della Cina. Con l’aiuto di Botta e di Negrotto riuscì
a trasportare sul colle la tenda-laboratorio, con tutte le apparecchiature
fotografiche, le lastre e le emulsioni chimiche che gli sarebbero servite. Gli
fu così possibile riprendere le foto panoramiche delle pareti orientali del
gigantesco gruppo del Gasherbrum e del
Broad Peak. Il tempo era sereno e gli permise anche una ripresa del Teram Kangri dove era in corso
un’esplorazione da parte di Longstaff. Le belle fotografie, che costituiscono
oggi un prezioso documento storico, costarono molta fatica a Sella, Negrotto e Botta, che dovettero
montare e smontare ripetutamente tende e ripari per piazzare treppiede e
macchina fotografica in diversi punti – al riparo dal vento e dal riverbero
eccessivo del sole – per ottenere le straordinarie foto panoramiche.
Il vento era particolarmente violento, e i portatori balti non volevano saperne di fermarsi, ma Sella decise ugualmente di mettere il campo su quel colle. In quel punto, chiamato Sella dei Venti, era rimasto accampato Eckenstein per quasi un mese. Un mese di sofferenze, che per poco non erano costate la vita a un membro della spedizione. A distanza di anni, nonostante il vento incessante che spazzava via tutto, Sella e i suoi compagni trovarono ancora resti della spedizione di Eckenstein sepolti nella neve.
Il
giorno dopo Vittorio Sella riuscì a
fotografare il K2 da est. Da quel
punto, la cresta sud-est, tentata dal Duca
con le guide, appare come un muro di ghiaccio impressionante, sormontato da
seracchi. Scattando la fotografia, Sella
pensò che la montagna non sarebbe mai stata scalata.
Il 17 giugno, il Duca e le guide raggiunsero il quarto campo vicino alla cresta nord-est, per tentare lo Skyang Kangri, o Staircase, un picco di 7544 metri. La via sembrava relativamente facile, su pendii non eccessivamente ripidi. Il Duca con i due Petigax e Henri Brocherel cominciarono a salire rapidamente, ma si mise a nevicare pesantemente, non si vedeva più niente e presto lo spessore della neve fresca li obbligò a ritirarsi. Tentarono di nuovo qualche giorno dopo, quando tornò il sereno, e fecero rapidi progressi raggiungendo un alto ripiano, ma a quel punto la via era bloccata a destra da una parete di ghiaccio e a sinistra da larghi crepacci. Erano tutti affaticati, cominciavano a soffrire per effetto dell’altitudine prolungata e il Duca decise di tornare indietro. Per la terza volta, in questa spedizione, si dichiarò sconfitto. Fu una magra consolazione poter approfittare di una schiarita per scattare una bella fotografia del K2 dallo Staircase Peak. La foto venne pubblicata nel frontespizio del libro della spedizione ed è stata spesso attribuita, erroneamente, a Vittorio Sella.
Il K2 dalla cresta meridionale del Staircase Peak nella fotografia del Duca che venne pubblicata nel frontespizio del libro della spedizione.
Al
Sant’Elia e al Ruwenzori il tempo era stato clemente con il Duca, ma al K2 non lo trattò meglio di Eckenstein. Rispetto ai giorni di tempo
buono, durante i quali si erano potuti compiere i vari tentativi di scalata,
quelli di neve e di tormenta che avevano bloccato tutti nelle tende erano stati
troppi. Non valeva la pena fermarsi ancora in quella zona: il Duca decise di tentare la fortuna
nell’area meridionale del Karakorum. I membri della spedizione erano ancora
tutti in buona forma e mentre il Duca
e le sue guide tentavano le varie ascensioni, gli altri si erano dati da fare e
avevano portato a termine i compiti scientifici che si erano prefissi: i
ghiacciai erano stati misurati, le mappe completate, esemplari botanici
raccolti; erano state effettuate osservazioni geologiche e riprese fotografie.
Ma Luigi di Savoia non si sarebbe
ritenuto soddisfatto prima di raggiungere un primato sportivo: se non la
conquista di una cima, almeno un record di altezza.
Scelse come obiettivo il Bride Peak, o Chogolisa, nel gruppo del Golden Throne, che forma la fiancata meridionale del ghiacciaio del Baltoro ed è così chiamato (Trono d’Oro) perché al tramonto le montagne riflettono una luce dorata. In mezzo al gruppo si staglia il Bride Peak, alto 7654 metri, che non era ancora stato salito.
Il
1º luglio il Duca pose il campo base
a 5071 metri, vicino al luogo dove si era
accampato Conway quando aveva tentato la scalata di quella stessa montagna.
Il Duca studiò una via che i
portatori balti potessero salire agevolmente sulla parete est della montagna
fino a una sella da dove partiva una cresta che portava sulla cima. Attaccò la
via il 4 luglio con Vittorio Sella e
le quattro guide. Attraversarono nevai cosparsi di blocchi di ghiaccio, caverne
profonde e crepacci senza fondo, e misero le tende a 5821 metri, 750 metri
sopra il campo base che potevano vedere proprio sotto di loro, sull’unica
striscia nevosa piatta in mezzo al grande ghiacciaio tormentato. Il giorno
successivo dovettero affrontare le stesse difficoltà che aveva incontrato Conway nel 1892. Il Duca,
sfinito, ridiscese al campo, mentre Sella,
con sette portatori balti e le guide, si accampò sulla via. Ma non poté andare più
avanti: il giorno dopo si scatenò una bufera che durò due giorni.
Il Duca gli inviò un portatore con un biglietto: le condizioni della neve erano pericolose ed era meglio che rientrassero tutti al campo di sotto. Non c’era speranza che il tempo si rimettesse presto, non c’era possibilità di proseguire né di fare fotografie, perciò Sella scese, lasciando viveri nel campo più alto. Ma non tornò sulla montagna: quando finalmente il tempo si volse al bello si fermò sul ghiacciaio a fare fotografie. Salirono invece il Duca con le guide, lentamente e a fatica, con la neve fresca che arrivava al ginocchio e a volte fino alla vita. Otto giorni dopo la loro partenza dal campo base, ebbero l’unico giorno sereno in tutta la salita e raggiunsero un colle a 6333 metri. Prima di accamparsi rinviarono al campo base i portatori balti. Il giorno dopo continuarono a salire nella neve fresca, ma non riuscirono a fare molti progressi: bivaccarono a 6606 metri. L’indomani arrivarono a 7150 metri, ma decisero di scendere al campo inferiore per trascorrere la notte, a causa delle valanghe che in quel punto cadevano con preoccupante frequenza. Rimasero due giorni nelle tende, bloccati da una bufera. Riemersero il giorno 17 e riuscirono a piazzare il campo a soli 800 metri di distanza dalla vetta.
Il 18 luglio lasciarono il campo alle cinque e mezza e salirono senza difficoltà fino alla spalla, ma erano avvolti in una nebbia fitta che li accecava. Sopra la spalla, salirono ancora per un’ora e mezza su un’esile cresta con una serie di cornici da un lato e crepacci aperti dall’altro. Per evitare i crepacci dovevano camminare pericolosamente vicino alle cornici che temevano potessero crollare sotto ai loro piedi da un momento all’altro. Misurarono l’altezza: erano a 7399 metri. Davanti a loro c’erano rocce insidiose coperte di ghiaccio trasparente. Il Duca insistette per proseguire e per fortuna, superate le rocce, la via procedeva senza difficoltà su un pendio nevoso. Continuarono a salire nella nebbia che si faceva sempre più fitta e che a un certo punto li costrinse ad arrestarsi. Attesero per due ore senza che la nebbia accennasse a diradarsi. Una nuova lettura del barometro indicò che erano a 7498 metri: era stato raggiunto un nuovo record di altezza.
Avrebbero voluto proseguire ma non c’era modo di vedere com’era la via davanti a loro. Si faceva tardi e il Duca decise di scendere. Fu una rinuncia meno sofferta delle precedenti. Non avevano conquistato la vetta, ma portavano a casa un bel record: un risultato sufficiente, assieme alle rilevazioni scientifiche, a giustificare l’intera spedizione. Il duca degli Abruzzi non immaginava che il suo record d’altezza sarebbe stato battuto, solo tredici anni dopo, dalla spedizione britannica all’Everest del 1922.
Vent’anni dopo, il nipote di Luigi di
Savoia, Aimone, duca di Spoleto, guidò al K2 una grossa spedizione
scientifico-geografica, che completò i rilevamenti topografici della spedizione
del Duca.
Per
molti anni vi furono tentativi di scalata della seconda montagna più alta del
mondo, che venne infine conquistata nel
1954 da una spedizione italiana guidata da Ardito Desio. La via, che permise ad Achille Compagnoni e Lino
Lacedelli di raggiungere la vetta, fu proprio quella tentata dal Duca nel 1909: lo Sperone Abruzzi.
La cresta pericolosamente orlata di cornici di neve, sopra al colle del Chogolisa, che aveva molto preoccupato il Duca e i suoi compagni, costò la vita del grande alpinista austriaco Hermann Buhl, nel 1957. Buhl era salito, con Kurt Diemberger, fino a 7300 metri. Stavano scendendo, respinti da una bufera improvvisa, quando Buhl scomparve. Pochi giorni prima, Buhl e Diemberger avevano compiuto la prima ascensione del Broad Peak, una montagna di 8047 metri.
Il
Chogolisa venne salito, per la prima volta nel 1958, da una spedizione
giapponese.
I dati scientifici rilevati nel corso della spedizione del duca degli Abruzzi si rivelarono importanti. Dimostrarono, tra le altre cose, che l’asserzione del Dr. Workman – che l’uomo non potesse trascorrere una notte sopra un’altezza di 6000 metri – non era corretta: il duca degli Abruzzi e i suoi uomini avevano trascorso trentasette giorni ininterrotti sopra i 5000 metri, e per nove giorni di seguito erano stati sopra i 6400 metri. Nonostante in quell’occasione non venissero effettuati studi specifici sul mal di montagna, è interessante osservare che, a parte malesseri minori, solo un uomo aveva dato segni di sofferenza per l’altezza mentre la spedizione era venuta a trovarsi per lunghi periodi a quote così elevate. Luigi vide dunque confermata una teoria che aveva fatta propria: quella del fisiologo Angelo Mosso, che aveva fondato un laboratorio internazionale sul Monte Rosa per lo studio della fisiopatologia dell’uomo alle grandi altezze e sosteneva che l’adattamento all’altitudine dipendeva quasi esclusivamente dall’allenamento e dalla gradualità della permanenza in quota.
Durante il viaggio di rientro il Duca apprese dai giornali che sia Frederick Cook sia Peary avevano dichiarato di aver raggiunto il Polo Nord, quell’estate.
A
Port Said, sulla nave che riportava la spedizione in Europa, il Duca venne preso d’assalto dai cronisti.
Più che dettagli sulla spedizione, volevano sapere se era vero che da Marsiglia
avrebbe proseguito per Parigi a incontrare miss Elkins. Quell’estate erano
apparsi articoli su miss Elkins che era stata vista per l’appunto a Parigi, in
compagnia di Billy Hitt.
Il
Duca si ritirò bruscamente dopo aver
dato, cortesemente, un breve sunto dei risultati della spedizione. Per il resto
del viaggio passò la maggior parte del tempo da solo, seduto nella sala della
musica, chiuso in un silenzio impenetrabile. A differenza delle volte
precedenti, il rientro dalla spedizione al Karakorum non venne celebrato con
particolare risonanza.
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