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& il ritorno degli ubriachi (25)
Il piacere
che vogliamo godere nel corso della nostra vita deve occupare uno spazio
maggiore. Come i garzoni di bottega e gli uomini di fatica, dovremmo essere
pronti a non rifiutare mai un’occasione per bere e ad avere sempre questo
desiderio in testa. Mi sembra invece che lo riduciamo giorno dopo giorno. Ai
tempi della mia infanzia, nelle nostre case le cene, le colazioni e le merende
erano molto più frequenti e abituali di oggi. Questo potrebbe significare che
in certe cose stiamo cambiando. Non è detto. Forse ci siamo solo gettati nella
lussuria molto più dei nostri padri. E il vigore nel bere è d’ostacolo a quello
nella lussuria. Questa ha indebolito il nostro stomaco, mentre la sobrietà ci
rende più cortesi e galanti nell’esercizio dell’amore.
Mio padre
raccontava aneddoti stupefacenti sulla castità del suo tempo. Lui aveva tutto
il diritto di parlarne. Era molto piacente e, per arte e per natura, ci sapeva
fare con le donne. Parlava poco e bene. I suoi discorsi erano inframmezzati da
citazioni tratte da libri volgari, soprattutto spagnoli. Conosceva bene quello
che oggi tutti chiamano Marco Aurelio. Il suo modo di fare era grave, ma nello stesso
tempo dolce, umile e assai modesto.
Prestava particolare attenzione alla cura e all’appropriatezza della sua persona e dei suoi abiti, sia quando andava a piedi che a cavallo. Le sue parole erano straordinariamente leali. Il suo scrupolo e la sua coscienza tendevano più alla superstizione che al contrario. Era, è vero, di bassa statura, ma era pieno di vigore, la postura dritta, il corpo ben proporzionato. Il volto era piacevole, tendente al bruno. Era esperto e abile in ogni nobile esercizio. Ho visto delle canne piene di piombo con le quali pare si esercitasse nel lancio del giavellotto o nella scherma. Aveva anche scarpe piombate per essere più leggero nella corsa e nel salto. Nel salto da fermo ha fatto piccoli miracoli. Dopo i sessant’anni si prendeva gioco dei nostri esercizi di agilità. Si gettava con la sua veste imbottita sopra un cavallo, saltava la tavola sostenendosi solo con il pollice e saliva verso la sua camera facendo almeno quattro gradini per volta.
A proposito
della castità del suo tempo diceva che in tutta la provincia c’era soltanto una
donna di malaffare. Raccontava poi alcune sue strane intimità con donne di
ottima reputazione, su cui non cadeva alcun sospetto. E di se stesso giurava
sulla religione che era arrivato vergine al matrimonio. Ma aveva partecipato
alle guerre al di là delle Alpi, in Italia. Sul diario di quelle esperienze che
ci ha lasciato, però, racconta punto per punto quel che avvenne, sia gli eventi
pubblici che le sue vicende personali. Si sposò in età avanzata, a trentatré
anni, nel 1528, dopo essere
rientrato dall’Italia.
Ma torniamo alle nostre bottiglie.
A confronto
di questi, gli altri sono assai deboli. Alla fine, come un vapore che sale
dileguandosi, arriva alla gola, dove fa la sua ultima sosta. Non riesco
tuttavia a capire come si possa arrivare a dilatare il piacere del bere oltre
la sete, fabbricandosi con l’immaginazione un desiderio artificiale e
innaturale. Il mio stomaco non riesce a spingersi fino a questo punto. È troppo
occupato con i suoi bisogni effettivi. Io sono fatto così: non do importanza al
bere se non come accompagnamento al mangiare. Così l’ultimo bicchiere che bevo
è quasi sempre quello più grande. Anacarsi si stupiva che a fine pasto i greci
bevessero in bicchieri più grandi di quelli che usavano all’inizio.
Penso lo
facessero per la stessa ragione per cui lo fanno i tedeschi.
Questi
cominciano la loro gara a chi beve di più immediatamente dopo aver finito di
mangiare.
Platone vieta ai ragazzi di bere vino prima dei diciotto anni e di ubriacarsi prima di averne compiuti quaranta.
Per chi ha
passato i quaranta, ubriacarsi è tassativo. Nei suoi pasti deve far intervenire
Dioniso, questo buon dio che è in grado di restituire agli uomini l’allegria e
ai vecchi la giovinezza, che sa addolcire e mitigare le passioni dell’anima
come il fuoco fa con il ferro.
Nelle
Leggi, Platone sostiene che i convivi sono utili purché ci sia qualcuno, a capo
della compagnia, che li contenga e li moderi. E, nello stesso tempo, che sappia
dare a chi è avanti con gli anni il coraggio di far baldoria, cantando e
ballando, ciò per cui altrimenti non avrebbe la forza.
Il vino,
dice Platone, può fornire la temperanza all’anima e la salute al corpo. Ma è
d’accordo con le restrizioni imposte dai cartaginesi. Non bisogna bere quando
si va in guerra.
I
magistrati e i giudici devono astenersene nell’esercizio delle loro funzioni e
in occasione di decisioni sugli affari pubblici. Non si deve bere durante la
giornata in cui bisogna dedicarsi ad altre occupazioni né la notte in cui si
stabilisce di procreare. Pare che il filosofo Stilpone, ormai vecchio, decise
di togliersi la vita bevendo vino puro. La stessa morte, ma non voluta, colse
il filosofo Arcesilao, ormai indebolito dagli anni.
È un problema vecchio e un po’ ridicolo, capire se l’animo del saggio possa soccombere alla forza del vino, se può esercitare la sua forza anche contro una coriacea saggezza.
A quale vanità ci spinge la buona opinione che abbiamo di noi!
L’animo più
moderato del mondo avrebbe fin troppo da fare a tenersi in piedi ed evitare di
schiantarsi per terra dalla debolezza. Nessuno riesce a stare dritto e saldo
per tutta la sua vita, senza cedere nemmeno un istante. E, ammesso che qualcuno
ne sia capace, si potrebbe dubitare che lo sia per natura. Si può vivere in una
condizione simile quando nulla ci turba. Ma mille accidenti possono turbarci.
Il grande
poeta Lucrezio, per quanto non faccia altro che filosofare e irrigidirsi,
impazzisce dopo una sbronza.
E non è
forse vero che una convulsione sconvolge Socrate allo stesso modo di un uomo
comune?
Una brutta
malattia può far dimenticare a qualcuno persino il proprio nome. La mente di
qualcun altro può essere sconvolta da una leggera ferita. Si può essere saggi
quanto si vuole, ma si è sempre umani. E non c’è niente di più caduco e
insignificante dell’uomo. La saggezza non può mutare la nostra costituzione
naturale.
Il sudore e
il pallore su tutto il corpo, la lingua paralizzata, la voce estinta, gli occhi
oscurati, le orecchie ronzano, il corpo è debole e tutto questo genera paura. Tutti
chiudiamo gli occhi davanti al colpo che ci minaccia. Tutti tremiamo come
bambini se ci troviamo sull’orlo del baratro. La natura ha infatti voluto
tenere per sé questi piccoli segni della sua autorità, che né la ragione né la
virtù stoica possono vincere, solo per insegnarci che siamo mortali e
impotenti. L’uomo impallidisce per la paura. Arrossisce per la vergogna. Si
lamenta per le fitte di una colica, urlando disperatamente o con voce rotta e
debole.
Pensa che non gli sia estraneo nulla di ciò che è umano.
Nemmeno i
poeti, i quali non devono rendere conto che alla loro libera immaginazione,
dispensano i loro eroi dalle lacrime: così dice Enea piangendo, e fa issare le
vele alle sue navi. Non può far altro che moderare le sue inclinazioni.
Sopprimerle non è in suo potere.
Anche
Plutarco, giudice perfetto ed eccellente delle azioni umane, non era sicuro che
la virtù esistesse ancora mentre Bruto e Torquato uccidevano i loro figli. E si
chiedeva se non fossero invece agitati da qualche altra passione.
Le azioni
che oltrepassano i limiti ordinari possono subire interpretazioni ambigue.
Il nostro
gusto non si confà né a ciò che gli è superiore né a ciò che gli è inferiore.
Mettiamo da parte quella setta che fa chiara professione di fierezza. Anche
perché, in quella che è ritenuta la setta più molle, sentiamo le vanterie di
Metodoro: T’ho prevenuta, Fortuna, e ti ho sottomessa; ti ho chiuso tutte le
vie, affinché tu non possa raggiungermi.
Anassarco,
messo nell’incavo di una roccia e pestato con una spranga di ferro per ordine
di Nicocreonte, tiranno di Cipro, non smetteva di dire: ‘Colpite, rompete, non
è Anassarco ma la sua fodera quella che pestate’.
I nostri
martiri, in mezzo alle fiamme, gridano al tiranno:
‘Questa
parte è abbastanza arrostita: tagliala, mangiala, è cotta, ricomincia
dall’altra’.
‘Tiranno,
non perdere tempo. Io sto benissimo. Non sento dolore. Non avverto i tormenti
con i quali mi minacciavi. È questo tutto quello che sai fare? Tu subisci la
mia fermezza più di quanto io soffra per la tua crudeltà. Sei un vile. Mentre
ti arrendi, io mi rafforzo. Non sei capace di farmi piangere, di piegarmi e
costringermi alla resa? Incita i tuoi carnefici. Stanno cedendo, non ce la
fanno più. Armali, aizzali!’.
Certo,
bisogna riconoscere che in questi personaggi vi è qualche alterazione e qualche
furore, per quanto santo. Fino ad arrivare alle uscite stoiche: ‘Preferisco essere
pazzo che libidinoso’, diceva Antistene. Sestio dice che preferirebbe essere
trafitto dal dolore più che dal piacere. Epicuro si fa carezzare dalla gotta,
rifiuta il riposo e la salute, sfida i mali con gioia. E, disprezzando i dolori
meno lancinanti, rinuncia a lottare e a combatterli, ne invoca e ne desidera di
più forti, pungenti e alla sua altezza:
Difficile
pensare che tutti questi non siano episodi di un cuore che si spinge oltre la
sua dimora naturale. Il nostro animo non saprebbe spingersi così in alto. Deve
abbandonare la sua sede naturale e sollevarsi, prendendo il freno coi denti,
trasportando il suo uomo per rapirlo e condurlo così lontano che lui stesso
arrivi a stupirsi dell’impresa.
Allo stesso
modo in cui, nelle azioni di guerra, il calore del combattimento spinge spesso
i soldati generosi a impegnarsi in assalti tanto rischiosi che, tornati in sé,
sono loro i primi a rimanerne sbigottiti.
O come i
poeti, spesso ammirati per le loro opere, che non saprebbero ritrovare la
strada che hanno percorso con tanta foga. È quello che si dice ardore e
frenesia. Platone afferma che un uomo posato bussa invano alla porta della
poesia. E Aristotele sostiene che un animo eccellente non può essere del tutto
privo di follia. Egli definisce, a ragione, follia ogni slancio, anche
lodevole, che oltrepassa il giudizio e il buon senso.
La saggezza è un governo regolato del nostro animo, guidato con misura ed equilibrio, e del quale è responsabile. Platone argomenta, perciò, che la facoltà di profetizzare ci trascende; bisogna essere fuori di sé per esercitarla. La nostra saggezza dev’essere offuscata dal sonno, da qualche malattia, o presa da un qualche raptus divino.
(M. de Montaigne)
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