giuliano

mercoledì 8 settembre 2021

(un quadro nella giusta prospettiva) DEL SUO TEMPO (25)

 










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Una piccola porzione di tempo dovutamente ritratto ed in posa, nella giusta prospettiva dei Tudor, rivive nell’arte e per mano di Holbein. Come li vide, così li ritrasse, e la storia non gli addebita alcuna accusa di adulazione, tranne nel caso di Anna di Cleves, di cui dipinse il ritratto per il re Enrico VIII, prima che il monarca l’avesse incontrata. Di per sé il ritratto non meno dell’opera incaricata all’artista ci svelano la sua ed altrui funzione, non meno del contesto in cui adoperata, ovvero la cornice del Secolo ivi rappresentato.

 

Non men che eccelso nelle commerciali prospettive cui aspira un valido artista.

 

I rimanenti altri, sottinteso, degli inetti esclusi Eretici!




 Qui si è convinti che fosse colpevole di adulazione, ma all’epoca si credeva generalmente che Thomas Cromwell, che era il suo mecenate e aveva commissionato il ritratto, ne fosse responsabile. Il fatto che lo stesso re Enrico abbia accettato questa opinione, e che Cromwell ne abbia sofferto, suggerisce che non ci devono essere margini deduttivi per la Storia, sebbene il re certamente capisse troppo bene il valore di un grande artista per litigare con lui.

 

Oltre a questo lavoro, cerchiamo in Holbein un lungo elenco di re, principi, uomini di chiesa, statisti, medici, avvocati, uomini di lettere, riformatori e celebrità sociali, tutti ‘ritratti’ nel loro ‘stile’ abitudinario, ovvero come vivevano e rivestiti della dignità che sembra essere stato parte integrante del periodo Tudor.




 Sembrerebbe essere stata un’età curiosamente pratica e professionale, con un po’ meno immaginazione di quella che associamo ai tempi elisabettiani. Nel trattare con uno e tutti i suoi vari soggetti, il pittore sembra aver preservato le caratteristiche essenziali e, se dobbiamo ricavarne il tocco del Maestro, non c’è nulla che difetti, eccetto, una incompresa eccentrica prospettiva figura a mo’ di Teschio che incombe sovrana nel celebre quadro dei due ambasciatori.

 

Iniziò il suo lavoro sotto l’influenza del Rinascimento e con un piacere quasi infantile per gli effetti decorativi. Man mano che progrediva, gettò da parte, uno ad uno i dettagli che aveva smesso di considerare essenziali, osservando nel modo più semplice possibile, senza alcun accenno di superfluità o ridondanza, senza concessione al lato meramente superficiale della creazione di immagini che era di buona utilità agli uomini inferiori.




 Lo straordinario successo della sua ritrattistica si comprende meglio quando apprendiamo che per la maggior parte del suo lavoro non ha adoperato, e neppure si è servito, dei modelli e principi secondo lo schema artistico della moda del suo Tempo. I ‘personaggi’ si siedono davanti a lui per uno schizzo, successivamente a questo nel suo Studio completa l’opera, e a tempo debito, il ritratto finito.

 

Quando osserviamo i ritratti nelle grandi gallerie europee, di Windsor o a Basilea, al Louvre o a Monaco di Baviera, possiamo stupirci che tali risultati debbano essere ottenuti da semplici ‘schizzi’. Ma lo studio stesso di questi ‘schizz’i serve a spiegare molto; e poiché ce ne sono più di ottanta a Windsor, e questi sono stati riprodotti molto finemente in più volumi, pensiamo che la tecnica pittorica si sia affinata ed evoluta su quegli disegni.




Naturalmente un artista è giudicato molto facilmente dai suoi sforzi nella ritrattistica, perché sono le cose che piacciono più facilmente all’occhio; ma nel caso di Holbein, che sarebbe stato un grande maestro se non avesse mai dipinto un ritratto, è bene cercare in altre direzioni le prove dei suoi molti doni.

 

Che tipo di uomo fosse, come e quando visse e morì, è, come abbiamo già accennato, una questione di congettura; e nell’esporre i fatti della sua vita che sono generalmente accettati, è necessario ammettere riserve a brevi intervalli. Certo, daremmo molto per conoscere la storia completa dei suoi progressi, per imparare le condizioni sotto il quale sono state realizzate alcune delle sue imprese più importanti, per cogliere alcuni barlumi davvero affidabili della sua vita domestica, ma in tutte queste questioni non abbiamo altro che fatti vaganti e innumerevoli congetture.




Anche il ritratto di Basilea che si dice lo rappresenti è di dubbia autenticità, fortunatamente, forse, la soddisfazione di questa curiosità, sebbene sia abbastanza umana e ragionevole e non si risolva, non è di primaria importanza. Può bastarci ampiamente che il grande artista abbia lasciato molte testimonianze delle sue (quanto nell’affermare: altrui…) realizzazioni, e che la maggior parte, o moltissime di queste, sono visibili alla terrena nostra ispezione affine ad una concreta ricchezza (materiale?) ancor più presente nei nostri giorni, qualità e il loro potere di insegnare e di affascinare le generazioni successive.

 

In ugual Arte!?

 

Sfortunatamente la storia non ha nulla da dirci sulla fanciullezza del giovane Hans, anche se possiamo dedurre che suo padre era in circostanze ristrette e non in ottimi rapporti con i membri della sua famiglia che stavano meglio di lui. Forse possiamo supporre che la res angusta domi abbia allontanato i passi del giovane Hans dalla casa di suo padre mentre era ancora poco più che un ragazzo, forse avrebbe potuto non avere più di diciassette anni, e sembrerebbe aver lasciato Augusta per Basilea, dove oggi si trova gran parte del suo lavoro. Qui nella sua prima giovinezza dipinse una Madonna e Cristo piuttosto poveri, che fu scoperto poco più di trent’anni fa dopo secoli di abbandono, ed è notevole soprattutto per i minuscoli cherubini rinascimentali sulla cornice, figure dipinte con tanta freschezza, facilità e vigore che si tende a trascurare la scarsa qualità del quadro sanciscono. Sembrerebbe che all’epoca in cui quest’opera fu dipinta l’anziano Holbein avesse portato la sua famiglia da Augusta a Lucerna, e che fosse stato subito ammesso alla Gilda dei Pittori.




Fu un un bene per Holbein che preferì Basilea come luogo di residenza, poiché le possibilità della sua vita lo proiettarono in un contesto molto più favorevole nella compagnia di uomini che trovarono un nuovo campo per i suoi talenti, e ne ampliarono considerevolmente la portata del suo ed altrui risultato. Non era destinato a rimanere costante alla pittura.

 

Nel 1515 Frobenius e Amerbach sono grandi stampatori di Basilea, Erasmo se n’era andato, e Frobenius fu attratto da alcune delle abili opere con le quali fece il suo debutto artistico nel mondo letterario, dacché quando la terza edizione del famoso ‘Elogio della Pazzia’ di Erasmo fu pubblicato (nonché udito!) da Frobenius assieme alla gilda degli stampatori nonché letterati, più o meno dotti, il frontespizio fu commissionato a  Holbein.




Non stava rivolgendo la propria attenzione a questo tipo di lavoro a scapito di altri, poiché associamo al soggiorno a Basilea una mezza dozzina di sforzi pittorici di second’ordine, di un artista che si sforza di ritrovare se stesso, ed è al fase della sua vita in cui è poco più che un testimone di ‘bottega’ nell’eco prospettato e riflesso di ‘mastri bottegai’ più grandi che lo hanno influenzato quanto ‘educato’.

 

Holbein però, per quanto si dica e dirà in seguito, è un uomo ben navigato, preparò il frontespizio dell’Utopia di Sir Thomas More, e dipinse motivi religiosi: quadri o piani d’appoggio con eguale sicurezza e facilità. Sviluppò in larga misura la propria conoscenza con gli umanisti della sua epoca, e la sua opera è sempre stata al servizio dei grandi tipografi e, non a caso, gli autori che erano in contatto con loro si interessavano al giovane artista che tanto aggiungeva alle attrattive dei loro libri.




Circa i suoi sentimenti religiosi non ne sappiamo troppo, ma il suo nome è spesso associato con la pubblicazione di certi opuscoli luterani di marcata scurrilità, e sembrerebbe aver preso tutta la sua parte nella contesa tra i riformatori ei loro avversari.

 

Erasmo vive per noi in diversi ritratti di Holbein, e non c’è dubbio che l’associazione con i principali letterati della città deve aver influito molto nel nostro pittore, per poi svilupparsi nell’opera rilevata nella misura in cui doveva servirgli quando lasciò la città di Basilea per luoghi più importanti e al servizio di esaltati mecenati. I suoi progetti per le incisioni su legno negli anni successivi al suo matrimonio sono di primaria importanza e includono la famosa serie della Danza della morte.

 

Possiamo ragionevolmente supporre che una parte della produzione sia andata persa, ma ciò che è rimasto fino ad oggi a Basilea ci stupisce. Il Museo è un monumento del suo talento e della sua industriosità. Molti affreschi seppur corrosi dal tempo, dipinti su tavola, quadri di soggetto, ritratti, disegni, studi di costume, le otto scene della Passione. C’è nel Museo quanto basta per consolare lo straniero per tutta la stagione del suo soggiorno in una città singolarmente poco attraente. Dobbiamo in gran parte la collezione esistente a Boniface Amerbach, amico dell’artista e primo mecenate, che, riconoscendo il valore della sua produzione, raccolse tutto ciò che poteva garantirne il ricordo e la dovuta memoria, e costituì - dunque - il nucleo di una collezione che costituisce l’odierna collezione di Basilea principale pretesa di distinzione.




In Italia, nello stesso Secolo, i libri come ogni Opera d’Arte è assoggettata all’immutata Inquisizione di Stato (non poniamo distinguo e differenza nel veicolato incamminato Pontificio cinto dall’ebbrezza della famigerata e più veloce Porta Pia! Ogni Storia compie l’immutato circolo pur ben ferma ed ancorata nelle irragionevoli (i)stanze contemplate del Tempo, procedendo quindi ben veloce ed inferma, giacché a questa infermità ci ispiriamo, a questa inadeguatezza ci dissetiamo, in questa meschinità la osserviamo e contempliamo più bella ed approssimata di pria; appena descritta da una 'piatta infantile incolta icona').

 

La fama, non meno del talento come l’intelligenza che la contraddistingue, viaggia(va) lentamente nel XVI secolo, ed altrettanto lentamente approderà nel XXI, come l’occhio che al meglio si ispira, come l’Anima che al meglio – nell’altrui demenza si rafforza e tempra… e specchia, abdicando l’annebbiata vista del giudizio di chi confonde e disseta, ubriacando con altro diverso principio alieno all’immutato Intelletto… di chi lento osserva e medita la vostra corsa fin giù il precipizio!

 

Benvenuta dotta Ignoranza ed ammira!

 

Così come il Destino (…o per taluni, certamente più retti, il delirio giammai compreso, benvenuti orsù anche voi!, senza distinguo alcuno, voi che del distinguo del 'va’ fermati pensiero', sottratto al più elevato e più certo ideale confacente al vero, nel conforme delirante perbenismo, ne fate una solida arroccata talebana nordica difesa, fortificando e cingendo su altrettante solide antiche muraglie, il distinto limitato distinguo: ovvero essere ed appartenere al razzismo privato d’ogni forma di cultura…) di ogni artista che al meglio rappresenta l’Intelligenza, esponendola alla limitata conoscenza o dotta ignoranza derivata e iper-connessa.

 

Non meno della presunta arguta psicologica conoscenza dedotta quanto ben seminata e coltivata, per il principio d’ogni guerra 'abbottegata' o innestata, ma ciarlano salvata dall’idiota ambasciatore di turno, e ci dicono, associata con chi ne mortifica ogni principio.

 

Quantunque esposta al sortilegio nonché accompagnata dall’inganno della dovuta cieca ottusa vista e diplomatica digitalizzata cornice, in cui seppur mal riprodotta e evidenziata, esposta in tutta la sua limitata idiozia, non meno della fallace prospettiva con cui si accompagna ed in cui dedotta o propagata attraverso l’Aria d’un diverso Dio.

 

Attraverso l’Elemento di una diversa filosofica Atena, approdato - ed ovvero procedendo - all’inverso moto della stessa, veicolando l’idiota verso la contraria prospettiva leonardesca in cui dedotto e calcolato, al centro d’una antica accreditata e legittimata talebana muraglia.

 

Là ove ogni dialogo si frammenta in Ragione di ugual medesimo Intelletto!

 

L’unica prospettiva del Quadro storico ammirato, sarà una impareggiabile simmetria d’intenti - dedotti ed uniti - al chiodo dalla nuova pestilenza nata e esportata d’un Teschio in cui esposta cotal opera.

 

In primo piano ancora gli Ambasciatori, portatori non tanto della verità, ma della piccola comune meschina appartenenza in Ragione del commercio in cui l’intera Compagnia si riconosce nel globo, divenuto globalità.

 

Altri strumenti scorgiamo nel senso prospettico di ugual opera e missione (non certo artistica), uniti ed evoluti non men che calcolati nella propria contenuta composta dialettica geometria, arazzi persiani (nel disprezzo di ogni regola terrena) ne cingono e risaltano il fiero contorno di ugual compostezza (si direbbe che manchi il classico turbante del più ricercato Omar…  quanto è bello!), con cui sedersi ad un tavolo.

 

Ci sembra cosa non più tribale ma offesa della detta globalità, la quale, se osservate ancor più attentamente, risalta fin sul geometrico pavimento in cui riflessa, ponendo frattura e distinguo, là ove Leonardo, il genio al servizio del banchiere di turno, fa il dovuto conto, e il Teschio assumere la dovuta e più nota irrisolta prospettiva non  più scritta, bensì ‘coniata’ nella più certa ed assicurata morte d’ogni forma di trapassata Intelligenza.   




I centri d’arte erano piccoli e pochi, appartenevano esclusivamente al mondo occidentale, e non c’erano sciami di mediocri influenti per assicurarsi il lavoro che apparteneva di diritto a uomini migliori. D’altronde, anche a quei tempi, quando ancora in certi ambienti la guerra era considerata l’unica occupazione di un gentiluomo, l’arte non conosceva confini nel mondo civile, e l’artista, in quanto prezioso collaboratore della bellezza della vita, poteva passare attraverso paesi in cui i suoi connazionali affaccendati in ben altre occupazioni avrebbero ricevuto scarsa accoglienza...









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